
Giovinezza, maturità e fine della reggia.
Giovinezza, maturità e fine della reggia.
Alla turbinosa vitalità dei Beuharnais, subentrò la calma compassata dei viceré: la Villa era ormai entrata nella maturità.
Un breve lampo la illuminò, come un ricordo di giovinezza, quando Massimiliano Asburgo, giovane fratello di Francesco Giuseppe, fu inviato nel Lombardo Veneto come ultimo viceré, per cercar di rallegrare i sudditi incattiviti da anni di duro governo militare.
Egli con la moglie Carlotta abitò la Villa dal 1857 al 1859 trovandovi quell'effimera pace che non poteva dargli l'inquieta Milano, in cui le ronde militari sancivano un eterno stato d'assedio. Furono forse questi soggiorni che le legarono la qualità melanconica delle grandi aspirazioni giovanili destinate alla delusione, delle buone intenzioni di cui è lastricata la via dell'inferno e il senso imminente di una fine tragica e tuttavia priva di gloria. Massimiliano presto partì per la sua fatale avventura di imperatore del Messico, per finire fucilato dai rivoluzionari di quel paese.
Vittorio Emanuele II, cui la reggia toccò per diritto di conquista dopo la vittoriosa campagna della Seconde Guerra d'Indipendenza 1859, era troppo affezionato ai piaceri delle sue residenze piemontesi per soggiornare in quell'edificio estraneo ed austriacante.
Fu Umberto I a scegliersela per dimora, come una sorta di ponte che lo avvicinava alle sue simpatie prussiane, ricevendovi fra l'altro l'Imperatore di Germania.
La reggia aveva ormai un secolo quando Umberto ne fece la sua residenza preferita: egli la fece restaurare, ampliare ed abbellire secondo il gusto neobarocco del tempo. Sui viali vicini fiorirono le residenze dei suoi cortigiani..
Egli non era uomo adatto a comprendere il mutamento dei tempi e la trasformazione dell'Italia. Certo non percepì l'aura sottile che ormai impregnava quel luogo, simbolo dell'ultimo effimero bagliore di una regalità avviata all'ineluttabile decomposizione dell'era borghese. Si avviò quindi, baldanzoso ed ignaro, al suo destino segnato.
Mentre Monza si avviava a diventare una città industriale ed operaia e fioriva l'industria del cappello, che riforniva fra l'altro gli eserciti di mezza Europa, Umberto si godeva alcuni passaggi, più o meno segreti, che dal suo appartamento gli permettevano d'allontanarsi indisturbato, verso l'alcova della sua amante, Eugenia Litta Bolognini, che abitava una vicina villa neogotica, il cui giardino confinava col muro del Parco reale.
Nella notte Umberto, per una porticina, andava a visitare la bella contessa, e questo era risaputo, ma i monzesi favoleggiavano che il re non disdegnasse il talamo delle borghesi o di altre donne di inferiore condizione. Essi sussurravano di numerosi figli del re, sparsi per la città e parcamente o largamente dotati dall'uzzolo della pseudopaterna regale munificenza.
Suo figlio Vittorio Emanuele III pare odiasse con tutta l'anima la Villa di Monza, in cui trascorse parte della giovinezza: la odiava per la presenza di un padre insensibile che lo disprezzava per la sua misera altezza; la odiava perché l'avevano affidato ad un precettore, il generale Osio, di cui resta la lapide commemorativa nella via omonima, che il padre aveva scelto a propria immagine; la odiava infine perché solidarizzava con la mamma contro le avventure sentimentali del re.
Nel 1900, sul vialone della Villa Reale, mentre tornava da una manifestazione ginnica in un'afosa giornata estiva, Umberto fu ucciso a pistolettate dall'anarchico Bresci, venuto dall'America per vendicare gli oltre 800 morti proletari, vittime a Milano, nel 1898, delle cannonate del generale Bava Beccaris, al quale il Re aveva affidato la repressione antioperaia e che poi aveva insignito di un'alta decorazione per aver ben svolto il suo incarico di macellaio.
Poiché in quel frangente l'erede al trono era assente, in crociera di stato in acque greche su un cacciatorpediniere, bisognò attendere il suo ritorno per il riconoscimento ufficiale e il cadavere di Umberto, vista la stagione torrida, dovette attendere sotto ghiaccio e formalina nella vasca da bagno per circa quattordici giorni l'arrivo del figlio. La vasca c'è ancora e fa mostra di sé nell'appartamento del Re.
La tragica morte del padre, l'orrore per l'appartamento, in cui troppo a lungo era giaciuto il suo cadavere nudo, le opposte pulsioni scatenate dall'amore-odio edipico, con tutti i relativi sensi di colpa, la volontà di proclamare la propria diversità ed al tempo stesso di affermare una svolta politica necessaria, concorsero certo nel cuore di Vittorio Emanuele a sancire l'abbandono di Monza.
Non fu quindi una rinuncia, per il piccolo re filatelico e numismatico, ma forse un sollievo lasciare una reggia che non aveva mai amato, assieme ai ricordi infelici da rimuovere.
Vittorio Emanuele III, decise che non avrebbe mai più messo piede in quella casa, e così fece.
La Villa restò abbandonata. Da allora nessun Re vi abitò più, vennero meno così i presupposti stessi della sua esistenza ed essa, in un certo qual modo, morì.
La giovinezza della Villa Reale
Quattro anni per costruire una nuova reggia
L'idea di una reggia a Monza, sul modello del castello di Schönbrunn a Vienna, fu concepita dall'imperatrice Maria Teresa perché il figlio minore, l'arciduca Ferdinando, fosse all'altezza degli Asburgo, in quella terra d'Italia, non poteva certo avere una residenza estiva di seconda classe rispetto a quelle dei sovrani satelliti. L'Imperatrice trattò il progetto con l'oculatezza della massaia, che deve far quadrare i conti, oltre che preoccuparsi della figura e dell'aria buona ma Ferdinando, commissionandola al Piermarini, interpretò il progetto materno su scala assai più grandiosa, anche se dovette risparmiare alquanto su marmi ed altri materiali di pregio. Del resto i lavori ebbero un ritmo inconcepibile all'appaltatore contemporaneo, il cui il torpore è il grimaldello dell'avidità: progettata nel 1777, nel 1780, in soli quattro anni, i terreni erano stati confiscati, i giardini tracciati, l'edificio era pronto e Ferdinando poteva soggiornarci, anche se probabilmente i suoi appartamenti olezzavano di vernici fresche e di cantiere, perché la borsa del fratello Giuseppe II, subentrato sul trono alla madre, era parsimoniosa, e i lavori di rifinitura si prolungavano all'infinito. Ancora gli industri artieri lavoravano alla casa della regalità quando, nella Versailles vera, folle di sanculotti urlanti massacrarono le guardie svizzere di Luigi e, pochi anni dopo, le armate rivoluzionarie dilagarono per la Lombardia, annunciando all'Italia l'inesorabile agonia dell'aristocrazia.
I monzesi, dopo aver riverito l'albero della libertà, in ossequio ai nuovi padroni, pensarono subito di fare i conti coll'ancien regime mettendo al sacco mobili ed arredi che l'arciduca aveva lasciato nella Villa. Un tal Meuvon, con tutta probabilità in buone relazioni coi nuovi padroni, andò oltre ed acquistò l'intera Villa per demolirla e rivenderne i materiali. Ciò forse non spiaceva agli antichi proprietari dei terreni espropriati su cui sorgevano Villa e Giardini, che speravano che la rivoluzione cancellasse le prepotenze de' grandi e restituisse i poderi agli antichi padroni, e neppure agli oculati imprenditori edilizi monzaschi che, pur non brillando di spirito giacobino, apprezzavano il mattone a buon mercato, meglio se gratuito. Non avevano però fatto i conti con Napoleone, che, intenzionato ad eclissare gli austriaci in regalità, decise di prendersi la Villa per farne una delle proprie italiche villeggiature. La restaurò e considerando che i giardini arciducali non gli bastavano, poiché nel suo carattere al fulmine tenea dietro il baleno, si appropriò di una gran quantità di terreni, espropriandoli ai queruli proprietari e facendone il Parco. In cerca di mattoni a buon mercato per recintare i terreni espropriati col più lungo muro di parco d'Europa, scoprì l'antica risorsa del Castello di Monza in rovina, divenuto una cava alla quale da decenni attingevano i monzesi, e tanto usò i resti dell'antica fortezza e delle mura viscontee che ancora circondavano il borgo, che, con gran scorno dei costruttori locali, non ne restò neppure un mattone.
In epoca napoleonica, sotto una strana e nuova monarchia, dal 1805 al 1812, la Villa vide il fior di giovinezza. Gioacchino Murat, galoppando su un cavallo con una pelle di tigre per gualdrappa, passava in rassegna le italiche truppe nella corte d'onore.
Vi abitò Eugenio di Beuharneis, il giovane Viceré figlio della prima moglie di Napoleone, Giuseppina, assieme alla moglie, la bella Amalia, e la Villa allora brillò di feste straordinarie, memorabili anche per il volgo, invitato a ballare nei cortili al suono della banda ed a godere nei giardini, dove, al lume delle torce, fra piramidi di salsicce, zampillavano fontane di vino. Intanto baroni di fresca nomina e pescecani borghesi danzavano negli aristocratici saloni con le loro belle, discinte nei veli stile impero.
Fu una stagione giovane e spensierata, destinata a finire presto.