
Br, Prodi: «I sindacati vigilino di più»
Redazione del Corriere della Seradel 15 febbraio
Uguali e diversi tren'anni dopo
Giovanni Cerruti su La Stampa del 15 febbraio
Nella mente dei terroristi
Giorgio Bocca su la Repubblica del 14 febbraio
Se la Chiesa sfida la Costituzione
Stefano Rodotà su la Repubblica del 14 febbraio
Un mestiere così pericoloso
Pietro Ichino sul Corriere della Sera del 13 febbraio
Br, Prodi: «I sindacati vigilino di più»
Redazione del Corriere della Seradel 15 febbraio
Uguali e diversi tren'anni dopo
Giovanni Cerruti su La Stampa del 15 febbraio
Nella mente dei terroristi
Giorgio Bocca su la Repubblica del 14 febbraio
Se la Chiesa sfida la Costituzione
Stefano Rodotà su la Repubblica del 14 febbraio
Un mestiere così pericoloso
Pietro Ichino sul Corriere della Sera del 13 febbraio
Br, Prodi: «I sindacati vigilino di più»
Redazione del Corriere della Seradel 15 febbraio
NEW DELHI (INDIA) – Il ritorno delle Br? Un fenomeno che preoccupa Romano Prodi che parla di pericolo non del tutto «sradicato». Dal premier arriva anche un pressante invito al sindacato a esercitare «una sorveglianza più forte». Senza citarla si rivolge alla Cgil , dopo gli arresti di otto iscritti o delegati nell'ultima operazione anti-terroristica.
LE BR – Dall'India il premier osserva con preoccupazione la contiguità e anche l'attrazione di consenso (il volantinaggio pro-Br fuori dall'assemblea della Fiom, ndr). Alla fine non è stato dunque un colpo fatale quello inferto nei giorni scorsi ai brigatisti. «Nelle telefonate con Amato – spiega Prodi – ci siamo scambiati anche questa preoccupazione». «La preoccupazione c'è. Dobbiamo essere vigili adesso e forse anche a lungo nel futuro» perché «al di là della soddisfazione per quello che abbiamo fatto, la preoccupazione è sempre presente perché il fenomeno non è del tutto sradicato». Prodi guarda all'operazione di polizia che è stata in grado «di anticipare eventi luttuosi. C'è quindi anche la capacità di interdizione e di intervento ed è un fatto che soddisfa. Ma guai, guai, guai, guai – spiega – abbassare la guardia». Il premier non crede che i fenomeni terroristici smascherati «siano una recrudescenza: c'è una certa continuità interrotta dal fatto che alcune persone erano all'estero e sono ritornate nel nostro paese ma non è una questione di questi giorni, il fenomeno era sottoterra ma esisteva». Anche perché «il gruppo arrestato è composto da persone di una certa età e che hanno quindi una continuità, è chiaro che c'è qualcosa sotto».
I SINDACATI – Prodi parla anche del coinvolgimento di alcuni rappresentanti del sindacato. «Credo che la cosa sia giunta come una sorpresa, anzi, è giunta come una sorpresa anche ai sindacalisti stessi». «Anche qui il problema – ha aggiunto il premier- è un'analisi e una sorveglianza molto più forte».
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Uguali e diversi tren'anni dopo
Giovanni Cerruti su La Stampa del 15 febbraio
PADOVA. Alle quattro del pomeriggio cominciano a gridare, è uno slogan ripetuto. E accanto all'Università i ragazzi iniziano a correre, «Arrivano! Arrivano!». Non c'è polizia, non ci sono carabinieri, non c'è nemmeno paura. Qui, negli Anni 70, tra il Caffè Pedrocchi e il Rettorato un urlo e un gruppetto scalmanato avrebbero messo paura. Ora no, anche se le edicole strillano sulle «Nuove Brigate Rosse padovane». Il coro è per Genny, Lisa, Marika e Franco detto «Francika» che si sono appena laureati: «Dottori, dottori, dottori del…», cantano i goliardi. La corsa è alle vetrine dell'ottico Salmoiraghi, dove due bellone sono le protagoniste di uno spot.
Padova, ancora una volta. E l'elenco può togliere il fiato, Freda, Ventura, le trame nere, le bombe di fine Anni 60, e poi le Brigate Rosse che nell'aprile 1974 proprio a Padova ammazzano per la prima volta, e poi le trame rosse, da Potere Operaio all'Autonomia Operaia, Toni Negri e l'inchiesta del pubblico ministero Pietro Calogero, i professori sprangati e gambizzati, le "notti dei fuochi" dove saltavano per aria auto, sedi di partito, vetrine di negozi, e a Thiene anche tre autonomi pasticcioni fino al suicidio, gli arresti del 7 aprile 1979. E ancora, e infine, la Padova dove le Br tenevano prigioniero il generale James Dozier.
Di quegli anni è rimasto Calogero, ora procuratore capo, parlava poco allora e parla poco pure adesso. Ma è rimasto anche Claudio Latino, uno che aveva aggredito a sprangate Guido Petter, preside di psicologia. «Gli aspiranti terroristi locali, che di generazione in generazione ereditano il sogno sanguinario di cambiare il mondo, sono un pedaggio che paghiamo da decenni, come se la pellagra fosse sopravvissuta fino ai nostri giorni», scrive sul «Corriere del Veneto» Fausto Pezzato, un altro che c'era. Come il professor Petter: saputo dell'arresto di Latino e si è sentito l'angoscia addosso: «Me lo ricordo bene quel giovane studente».
Sono passati quasi trent'anni, Padova ha vissuto il peggio e non sembra scossa. «La società è vaccinata, ho visto la reazione degli studenti in università e dei sindacati – commenta il professor Petter, 79 anni e sempre la stessa voglia di capire -. Nessuno ha detto, o dice più, né con lo Stato né con le Br». Però, e qui cominciano timori veri, «se questi non rappresentano un movimento di massa, non hanno risonanza tra studenti e mondo del lavoro, non hanno intercambio nella società, allora queste condizioni li rendono più pericolosi. Il loro delirio li porta a credere che un omicidio possa scatenare la Rivoluzione».
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Davanti al Rettorato, tra piazza delle Erbe e piazza dei Signori, negli Anni 70 c'era lo struscio dell'Autonomia e adesso ci sono i Centri Sociali che tiran notte bevendo «spritz». Sulle colonne della piazza le scritte più eversive sono «Trippettiamoci tutti», «Ti amo Principessa» e «Nazi Merde». Due bancarelle vendono fiori, è San Valentino. Questa sera dai Centri Sociali non verranno. Quelli del «Gramigna», frequentato dagli arrestati, preferiscono evitare. Quelli del «Pedro» hanno chiuso la sede di via Ticino 5 con una catena e un lucchetto gigante. Sul cancello è infilata una busta spedita da Trieste, «13 febbraio ore 12,10».
"Radio Sherwood", allora la voce dell'Autonomia, ha dato la notizia degli arresti con un distacco da Bbc. Nel '79 era una voce minacciosa, ogni mattina una rassegna stampa con nomi e cognomi e voti. Altri anni, altra storia, tanto che ai cronisti che vanno sentire gli umori tra il «Gramigna» e il «Pedro» spesso capita di raccogliere stupore, come quello dell'ex capo scout Enrico Zulian, uno dei portavoce. «Il 7 aprile, l'inchiesta di Calogero, Toni Negri, l'Autonomia Operaia, era il 1979, no? Bene, io sono nato nel 1984, che collegamento volete che ci sia!». Latino, in quel periodo, negli anni dei «Cattivi maestri», ne aveva già 21.
Forse è la voglia di non rivivere quegli anni, quelle notti, le mattine con il giornale radio che dà notizia di un gambizzato di qua e un morto di là. «Dobbiamo evitare di ripiombare nella funesta stagione degli anni di piombo», dice il filosofo Umberto Curi, già preside della facoltà. Evitare, anche, certi errori: «Che dunque la magistratura non esorbiti dalle sue funzioni, gli organi di polizia evitino di colpire nel mucchio e l'informazione si astenga dal "montare" casi giornalistici privi di fondamento». Morale, professore? «L'equilibrio nelle analisi non c'era allora e non c'è adesso». E Padova non ha più voglia di ricordare.
Nella mente dei terroristi
Giorgio Bocca su la Repubblica del 14 febbraio
Le Brigate Rosse sono tornate pronte a uccidere come negli anni Settanta, evento incredibile ma possibile, unico in Europa.
Perché? Forse perché la loro sconfitta militare non è stata seguita da una piena sconfitta politica, forse perché l´estremismo è una tentazione perenne, forse perché il mondo come è provoca ancora reazioni disperate. Forse perché la nostra vera natura è quella della scimmia assassina? Quello che colpisce e spaventa nel nuovo estremismo non è il recupero di ideologie rivoluzionarie votate a nuove repressioni ma il diffondersi di un nichilismo irragionevole, da kamikaze, da gente che è pronta a farsi annientare, a passar la vita in galera, di una febbre sociale che non scompare.
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Moretti, Ognibene, Semeria e quasi tutte le donne a cominciare dalla Balzarani erano dominati, ossessionati da questo bisogno di affermarsi anche a costo di cavalcare sogni e illusioni. C´era in loro un bisogno incontenibile di rifiutare la vita come è, di affrontare le sue pene, le sue fatiche come sono e di inventarsi un mondo, una vita straordinari nei poteri personali e nei rischi.
Il modello di questo modo maniacale di vivere mi parve Mario Moretti, che aveva trovato un riparo alle delusioni dell´ideologia e dei sogni con la mitica "O" la organizzazione anche essa una rivalsa, il fargliela vedere ai borghesi presuntuosi come erano più bravi di loro "quattro operaiacci" che poi operaiacci non erano ma degli intellettuali ambiziosi che pur di salire nelle ambizioni facevano i rivoluzionari. Ci sono parecchie somiglianze fra le vecchie e le nuove Br. L´uso della lotta armata e della clandestinità per risolvere le inquietudini e le angosce dell´esistenza è più vicina alla soluzione morettiana dell´Organizzazione che al romanticismo rivoluzionario del gruppo storico. La clandestinità diventa per quasi tutti un sostituto della ragione, della voglia di capire il mondo che cambia, diventa una mania, a volte quasi un gioco di travestimenti, esercizi tecnologici, imitazioni di James Bond e degli agenti segreti. Lo hanno confessato nelle loro memorie terroristi intelligenti come Morucci. "In alcuni film americani, specie polizieschi, comparivano spesso dei fucili a pompa. Il desiderio di ogni brigatista fu di averne uno", la clandestinità come un gioco di guardia e ladri. Il brigatista Azzolini che va a pranzare in un ristorante vicino alla questura di Milano in mezzo a quei "fessi di poliziotti" che passano l´olio e il portacenere al pericolo numero uno che siede al loro tavolo – giochi autolesionisti che non hanno fermato la rivoluzione dei ricchi e la crescita sociale della criminalità organizzata. In una sola cosa questo terrorismo di poveracci ha avuto successo: nella disgregazione dello Stato, nella perdita dei valori civili. Ma credere di cambiare il mondo con i finti pedinamenti e le fotografie degli sbirri dalla bicicletta ottiene solo l´affollamento delle carceri e le loro sofferenze che si confondono con il masochismo.
Se la Chiesa sfida la Costituzione
Stefano Rodotà su la Repubblica del 14 febbraio
È ormai evidente che le gerarchie ecclesiastiche hanno deciso di collocare i loro interventi e le loro iniziative in una dimensione che va ben al di là del legittimo esercizio della libertà d´espressione e dell´altrettanto legittimo esercizio del loro magistero. Giudicano i nostri tempi con una drammaticità che fa loro concludere che solo una presenza diretta, non tanto nella società, ma nella sfera propriamente politica, può rendere possibile il raggiungimento dei loro obiettivi. E così espongono anche i loro comportamenti ad un giudizio analogo a quello che dev´essere pronunciato sull´azione di qualsiasi soggetto politico.
Benedetto XVI ha affermato in modo perentorio che "nessuna legge può sovvertire la norma del Creatore senza rendere precario il futuro della società con leggi in netto contrasto con il diritto naturale". Ed ha aggiunto che non si possono ignorare "norme inderogabili e cogenti che non dipendono dalla volontà del legislatore o dal consenso degli Stati, ma precedono la legge umana e per questo non ammettono deroghe da parte di nessuno". Di rincalzo, il Presidente della Commissione Episcopale Italiana, il cardinale Camillo Ruini, da almeno dieci anni protagonista indiscusso del corso politico della Chiesa, ha annunciato una nota ufficiale con la quale verrà indicato il modo in cui i cattolici, e i parlamentari in primo luogo, dovranno comportarsi di fronte al disegno di legge sui "diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi", i cosiddetti "Dico". Così, in un colpo solo, viene aperto un conflitto con il Governo, affermata la sovranità limitata del Parlamento, azzerata la Costituzione.
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Questo è il quadro istituzionale e politico disegnato con assoluta nettezza dai molti interventi vaticani. Un quadro di rotture e di conflitti, davvero sovversivo delle regole costituzionali, con una delegittimazione a tutto campo delle iniziative di Governo e Parlamento che trasgrediscano ciò che la Chiesa, unilateralmente, stabilisce come "inderogabile e cogente". Sapranno le istituzioni dello Stato rendersi conto di quel che sta accadendo? Non devono ritrovare solo l´orgoglio della propria funzione, ma il senso profondo della loro missione, la stessa loro ragion d´essere, che ne fa il luogo di tutti i cittadini, credenti e non credenti, comunque liberi e degni d´essere rispettati in ogni loro convinzione, e in ogni caso fedeli, come devono essere, alla Costituzione e ai suoi valori.
Un mestiere così pericoloso
Pietro Ichino sul Corriere della Sera del 13 febbraio
Perché in Italia fare questo mestiere è così pericoloso? Carlo Castellano, dirigente industriale colpevole di accordi innovativi sull'organizzazione del lavoro, ferito gravemente, poi perseguitato ancora per anni dagli stessi aggressori (1977); Filippo Peschiera, giuslavorista, democristiano di sinistra, ferito gravemente (1978); Guido Rossa, sindacalista Cgil all'Italsider, ucciso (1979); Gino Giugni, giuslavorista, grande architetto delle riforme in materia di lavoro fin dagli anni Sessanta, ferito gravemente (1983).
E ancora: Ezio Tarantelli, economista del lavoro, ideatore della riforma della scala mobile che ci ha consentito di vincere la scommessa di Maastricht, ucciso (1985); Massimo D'Antona, giuslavorista, consigliere dei ministri del Lavoro e dei Trasporti, ucciso (1999); Marco Biagi, giuslavorista, autore della riforma che porta il suo nome, ucciso (2002); e sono solo i nomi più noti tra i tanti che negli ultimi trent'anni hanno pagato col sangue il loro impegno sul fronte del lavoro.
La vicenda di quest'ultima riforma del lavoro può aiutarci a capire almeno un aspetto di questo meccanismo infernale. Marco Biagi ha scritto di suo pugno il progetto di una legge sul mercato del lavoro, che era per molti aspetti la naturale prosecuzione del cammino di riforma avviato con le leggi Treu del 1997. Ma che cosa disponesse davvero quella legge non interessava molto, né a destra né a sinistra. Al governo di centrodestra interessava soltanto presentarla come "la grande liberalizzazione ", quella che avrebbe fatto del nostro mercato del lavoro "il più fluido d'Europa"; all'opposizione di sinistra non è parso vero di prendere il "nemico" in parola, presentandola come la legge della "liberalizzazione selvaggia", che avrebbe "spalancato le porte al precariato".
Da una parte e dall'altra se ne è fatto un simbolo: bandiera da sventolare per gli uni, da abbattere per gli altri; indifferenti tutti a che cosa prevedesse davvero. Solo qualche anno dopo – ed è cronaca delle ultime settimane – ci si è accorti, dati alla mano, che quella legge non aveva prodotto alcun aumento del precariato e anzi forniva, con le norme sul "lavoro a progetto", alcuni buoni strumenti per combattere l'abuso del lavoro precario: strumenti di cui il governo Prodi si è immediatamente avvalso con la circolare sui call center; e che a molti imprenditori sembrano semmai fin troppo severi. Peccato che, nel frattempo, le Brigate rosse avessero pensato bene di fare dell'autore stesso di quella legge un simbolo da abbattere.
La scoperta dell'errore commesso sul "lavoro a progetto" non basta perché cessino le opposte faziosità. Invece di ragionare pragmaticamente sulle molte parti della legge che richiedono qualche correzione o qualche integrazione, si continua con il muro contro muro. Se si rinuncia (a denti stretti) ad abrogare le norme sul "lavoro a progetto", occorre "almeno" sopprimere in blocco le norme sul "lavoro a chiamata" e quelle sullo staff leasing.
Nessuno si cura del fatto che il "lavoro a chiamata" sia un tipo marginalissimo di contratto che è sempre esistito (i camerieri ingaggiati per un banchetto, le hostess per un congresso, ecc.) e che continuerà a esistere anche se si abrogheranno le poche norme con cui la legge Biagi si propone di regolarlo. Quanto allo staff leasing-pacificamente sperimentato in molti Paesi, tra cui la vicinissima Svizzera, con piena soddisfazione dei sindacati-nessuno si cura del fatto che si tratti di una forma di organizzazione del lavoro fortemente stabile, al quale si applica senza eccezione la protezione massima dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori; a nessuno interessa che l'alternativa allo staff leasing, da noi, sia il lavoro in una miriade di aziendine appaltatrici di servizi, con poche o nulle protezioni efficaci.
La legge Biagi è un simbolo da abbattere: se non la si può cancellare del tutto, occorre a tutti i costi cancellarne almeno una parte. Pazienza se questa cancellazione è del tutto irrilevante, o addirittura controproducente, rispetto all'obbiettivo sbandierato di combattere il precariato. Perché dico che questa vicenda può spiegare almeno un aspetto della pericolosità del mestiere del giuslavorista o dell'economista del lavoro? Perché il lavoro è materia che scotta; e lo studioso che fa bene il suo mestiere, in questo campo, è costretto troppo sovente a dire cose che urtano contro dei tabù, contro un modo fazioso e non pragmatico di affrontare le questioni, tipico del dibattito italiano su questi temi.
Chi non si rassegna a omologarsi con il "pensiero corazzato" dell'un campo politico o dell'altro rischia di trovarsi isolato e schiacciato tra le opposte faziosità. Viene temuto come il demonio dalle vestali di quel "pensiero corazzato", perché il suo discorso problematico squalifica i loro slogan facili, le loro scorciatoie concettuali; quindi finiscono col demonizzarlo, nel tentativo di chiudere il dibattito prima ancora che esso si apra. Solo a parole, si intende. Ma nel nostro Paese c'è ancora qualcuno che la "chiusura preventiva del dibattito " la intende in un altro modo.