
Piani segreti, armi e rapine: arrestati 15 br
Paolo Biondani e Cristina Marrone sul Corriere della Seradel 13 febbraio
Dal Cavaliere a Casini è l'ora dei "cattolicanti"
Filippo Ceccarelli su la Repubblicadel 12 febbraio
Cofferati: Prodi non si faccia fermare
Aldo Cazzullo sul Corriere della Seradel 12 febbraio
uei patti dimenticati fra Stato e Chiesa
Eugenio Scalfari su la Repubblica dell'11 febbraio
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Eugenio Scalfari su la Repubblica dell'11 febbraio
Piani segreti, armi e rapine: arrestati 15
Paolo Biondani e Cristina Marrone sul Corriere della Seradel 13 febbraio
MILANO – Terroristi italiani. La polizia ne ha arrestati quindici, ieri all'alba, tra Lombardia, Piemonte e Triveneto. Sono accusati di aver organizzato «un'associazione terroristica costituitasi in banda armata», che sotto il nome di «Partito comunista politico- militare» (Pcpm) si richiama alla «seconda posizione», cosiddetta «movimentista», delle Brigate rosse. Divisi in tre cellule di Milano, Padova e Torino, i neo-brigatisti avevano armi, sequestrate dalla polizia, e si esercitavano a sparare nelle campagne di Rovigo e Milano. Tra gli arrestati, due sindacalisti della Cgil, tra cui il presunto capo del «nucleo di Torino». Le «riunioni strategiche», tenute ogni mese in ristoranti soprattutto cinesi (ritenendoli non intercettabili), erano guidate da un terrorista rosso della vecchia guardia, Alfredo Davanzo, latitante dagli anni '80 e rientrato in Italia nel novembre 2006 a fine pena, ma da clandestino, con un documento falso dei complici. Era nascosto a Raveo (Treviso), in montagna, in una casa senza riscaldamento, però con il computer: è l'unico che si è già dichiarato «prigioniero politico».
Nell'ordinanza d'arresto il giudice Guido Salvini definisce i 15 arrestati «il nucleo essenziale» di una «banda armata a tutti gli effetti». Come «costitutori» sono finiti in carcere il capo della cellula di Milano, Claudio Latino, 49 anni, ex dell'Autonomia veneta, il suo «allievo» e successore a Padova, Davide Bortolato, 37, e un incensurato delegato Cgil di Torino, Vincenzo Sisi, 54 anni. Tra gli arrestati a Milano spicca Bruno Ghirardi, già condannato a 22 anni come terrorista dei «Colp», scarcerato nel 2001 e riscoperto nel 2006 a parlare di rapine, ferimenti, «autobombe all'Eni» e attentati al professor Ichino e alla casa di Berlusconi. Elogiando la polizia per aver «salvato vite umane», il pm Ilda Boccassini ha spiegato la centralità delle intercettazioni ambientali nei locali pubblici, dove i quattro capi tenevano le «riunioni strategiche »: «Sono le loro stesse parole ad accusarli». I reati già compiuti sono tutti preparatori: furti di auto e targhe, documenti falsi, un colpo al Bancomat di Albignasego (Padova), la notte del 30 dicembre, sventato dalla polizia facendo suonare «per caso» l'allarme:
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La Digos ha filmato «un'esercitazione notturna con almeno una mitraglietta Uzi e un kalashnikov» nella frazione Beverare a San Martino di Varezze (Rovigo): «Sparavano di notte – rimarca la Boccassini – e il giorno dopo hanno recuperato tutti i bossoli». A vendere le armi era Salvatore Scivoli, 55 anni, siciliano «arrestato giovanissimo per criminalità organizzata e politicizzatosi in carcere fino a firmare gli appelli di Curcio e Franceschini». La dirigente di polizia Giuseppina Suma ha precisato che l'inchiesta era nata dalla scoperta casuale (la telefonata di un'inquilina) in una cantina di via Pepe a Milano di una strana «bicicletta con microcamera nel fanale e radiotrasmittente nel sedile». Dopo mesi di silenzio, le intercettazioni hanno portato a un condomino, Massimiliano Gaeta, risultato «il tecnico» della banda. In maggio «il Sisde del generale Mori» ha allargato le indagini a Torino e Padova. Davanzo gestiva anche «la rivista clandestina Aurora» e organizzava «corsi d'informatica in Svizzera per la sicurezza delle comunicazioni» tenuti dall'estremista Andrea Stauffacher, perquisito ieri dalla procura di Berna. Inquietanti anche gli incontri con brigatisti storici: Ghirardi era amico di Marcello Ghiringhelli, l'ergastolano che ieri si è visto revocare il permesso di lavoro fuori dal carcere.
Dal Cavaliere a Casini è l'ora dei "cattolicanti"
Filippo Ceccarelli su la Repubblicadel 12 febbraio
Padre Bartolomeo Sorge, che resta un formidabile politologo di sottilissima scuola gesuitica, li ha definiti un giorno, non molto tempo fa: "cattolicanti". Si tratti di uomini politici che differiscono dai "cristianisti" perché in genere sono piuttosto accomodanti, soprattutto con se stessi. Con una certa frequenza ostentano la loro fede, i loro valori, ma sempre più spesso se ne servono a fini politici. Per esempio, a proposito dei Dico e quindi sulla famiglia.
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Ammesso che ci sia, il centrodestra e i suoi leader non sembra possano chiamarsi fuori dalla "crisi morale" di cui parla senza troppi riguardi il professor Buttiglione. O meglio: non possono, non devono, non è giusto che scaglino la prima pietra senza prima guardare a casa loro. Tra le classiche quattro mura, nella loro denudata e fragile esistenza. Né è conveniente che lo facciano mossi solo dal calcolo o dalla convenienza: a prescindere dai reality che fioriscono sulle reti Mediaset, sorvolando sui modelli che trasmettono quei palinsesti ingolfati dai valori della pubblicità, mica della famiglia. Per non dire dei quadretti coniugali venuti tristemente e allegramente alla luce nel segmento An delle intercettazioni di Vallettopoli. Perché tutto, oggi, si fa al tempo stesso più grandioso e più misero, più camuffato, ma anche più evidente. E se il peccato – come la redenzione – è di tutti e per tutti, beh, non è detto che i "cattolicanti" identificati dal reverendo padre Sorge ne debbano avere il monopolio teologico; e quando gli fa comodo addirittura politico.
Cofferati: Prodi non si faccia fermare
Aldo Cazzullo sul Corriere della Seradel 12 febbraio
BOLOGNA – Sindaco Cofferati, cinque anni fa al congresso Ds di Pesaro lei guidava l'opposizione. Oggi vota la mozione Fassino. Perché ha cambiato parte?
"Perché i cambiamenti sono stati molti, robustissimi, e riguardano tutti. Dopo Pesaro il partito è progressivamente uscito dallo stato catatonico in cui si era trovato dopo la sconfitta. Ha percepito meglio il carattere della coalizione di centrodestra, che non era affatto – come credeva una parte del gruppo dirigente Ds – impregnata di cultura liberale. E ha cominciato a vincere un po' ovunque, non limitandosi a indicare gli elementi negativi dell'azione altrui ma individuando soluzioni realistiche. Ora, mi piacerebbe molto che un contributo originale al documento di Fassino venisse anche dall'Emilia Romagna. Il prossimo congresso sarà cruciale per indicare come rendere più efficace l'azione di una cultura riformista".
Ci sono già due banchi di prova: unioni di fatto e Afghanistan.
"Come posso testimoniare personalmente, tenere assieme una coalizione molto ampia è difficile. Nel centrosinistra vi sono una cultura riformista e una cultura radicale. Come sempre, queste differenze incrociano alcuni snodi particolarmente complessi: la politica estera e i diritti delle persone, cui aggiungerei la politica economica, con la dicotomia tra mercato e regole, che a mio avviso sarà la prossima questione ad aprirsi. Ma la coalizione non ha alternative: deve con pazienza cercare un punto di equilibrio. Militando per l'affermazione della cultura riformista, spero sempre che questo punto di equilibrio non la neghi, anzi ne segni la progressiva affermazione".
I Dico la soddisfano? O le sembrano un compromesso al ribasso?
"A parte il gusto di cambiare di continuo nomi e acronimi, che non aiuta la gente a capire (penso anche alla "lenzuolata" di liberalizzazioni; per fortuna Bersani è spiritoso e dice che ora occorre la trapunta), mi pare che il punto di equilibrio sia stato trovato. Come regola generale, preferisco una riforma frutto di mediazioni interne e dal profilo non sempre lineare a una bella riforma che non si farà mai. Meglio camminare nella direzione giusta anziché immaginare utopie perfette e irraggiungibili da una coalizione con anime diverse. Ora la stessa cosa deve accadere in politica estera. Dove il clima è meno semplice perché c'è un pregresso: si riapre la discussione sull'Afghanistan, che ha lasciato un sedimento di preoccupazione sulle intenzioni reali per il futuro".
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La sua sintonia con Bologna migliora o peggiora, come indica un recente sondaggio?
"A parte che tutti gli altri indicatori di quel sondaggio erano in crescita, chi fa il mio mestiere deve lavorare senza farsi condizionare da verifiche in corso d'opera, senza badare ai ritorni a breve. Una parte non piccola dell'opera di un sindaco si misura alla scadenza del mandato, qualcosa va al di là del mandato stesso. Rispetto le opinioni, ma non ne sono ossessionato".
Che cosa accadde davvero secondo lei a Bologna nel '77?
"Io quell'anno ero a Milano. Ma mi riconosco nell'analisi che fece Zangheri: quell'anno segnò la difficoltà e il limite della politica organizzata a comprendere alcune esigenze del movimento; e il mancato confronto non ne ha favorito il processo di maturazione. Ci fu una rottura tra politica e mondo giovanile. Stiamo preparando un programma di discussioni che ci aiutino a comprendere il fenomeno".
Fa bene Sofri ad andare al convegno della mozione Fassino o la signora D'Antona a criticarlo?
"Anche questo caso, per quanto Sofri con il '77 c'entri poco, a suo modo è spia di un problema non interamente risolto, pure dentro i Ds. Colpisce che stiamo parlando di trent'anni fa. E trent'anni sono un tempo lunghissimo nella vita di una persona. Questo accade perché lunga è stata la rimozione. Non vedo ragioni contrarie alla presenza di Sofri; capisco però che possa suscitare reazioni molto acute. La considero la conferma che non dobbiamo avere timore di affrontare il tema della memoria e del rapporto tra politica e movimenti".
Ogni anno l'anniversario della morte di Biagi riapre un'antica polemica. Le sono state rimproverate le critiche in vita. Ora la signora Biagi denuncia di non essere stata coinvolta nelle prossime commemorazioni e contesta al Comune di voler riscrivere la targa concordata a suo tempo dalla famiglia con Guazzaloca. Che cosa risponde? La vicenda Biagi è un peso per lei?
"Sono sorpreso e amareggiato dal ripetersi di queste polemiche su argomenti sempre diversi. Anche questa volta, come ho fatto nel passato, risponderò nei prossimi giorni al merito che le provoca; avendo come obiettivo quello di rispettare la famiglia e il suo dolore, e nel contempo di attuare i doveri istituzionali".
L'arcivescovo Caffarra ha assunto posizioni molto critiche. Come sono i vostri rapporti?
"Il cardinale ha opinioni ben precise, che non ha mai nascosto, talora molto diverse dalle mie. Però non ha mai esercitato nessuna interferenza nel lavoro dell'amministrazione. I rapporti sono di grandissima correttezza e rispetto".
Anche lei avverte un'ingerenza eccessiva della Chiesa nella politica?
"Considero fondamentale in uno Stato laico la distinzione dei ruoli. Non mi preoccupano in alcun modo valutazioni, pareri, giudizi, anche espressi ad alta voce. Tentativi di condizionamento non sarebbero accettabili da nessuno".
Quei patti dimenticati fra Stato e Chiesa
Eugenio Scalfari su la Repubblica dell'11 febbraio
Nella giornata di ieri la Chiesa è passata al contrattacco, guidata dal Papa in persona a rinforzo del "non possumus" emanato dalla Conferenza episcopale. Benedetto XVI, con riferimento specifico ai temi della bioetica e al disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri sulle convivenze di fatto, ha detto che c'è da pensare "che ci siano dei periodi in cui l'essere umano non esista veramente" Addirittura! Accenti simili non si erano più uditi da quando i bersaglieri di La Marmora entrarono dalla breccia di Porta Pia mettendo fine al potere elettorale e la nobiltà clericale chiuse i portoni dei suoi palazzi sconfessando la nascita dell'Italia unita e di Roma capitale.
Dev'essere accaduto qualche cosa di molto più grave a ferire la sensibilità e gli interessi della Chiesa del riconoscimento di alcuni diritti che regolarizzano le coppie di fatto ben più timidamente di quanto già non sia avvenuto in tutt'Europa, dalla Spagna all'Olanda e dalla Francia alla Germania. Che cosa è dunque accaduto?
È accaduto che quel cautissimo atto di governo, che porta la firma d'un premier cattolicissimo ed è stato redatto da un cattolicissimo ministro, ha posto un paletto al neo-temporalismo della Santa Sede, alle sue crescenti interferenze nella legislazione e addirittura nell'articolazione delle norme di legge che il Parlamento voterà nelle prossime settimane.
È accaduto che al "non possumus" dei vescovi italiani è stato opposto il "possumus" dei gruppi parlamentari del centrosinistra e in particolare dei parlamentari cattolici della Margherita, che hanno rivendicato la loro responsabile autonomia laica e – insieme – la loro costante appartenenza ai valori del cristianesimo.
Viene in mente il rifiuto di Alcide De Gasperi all'operazione Sturzo di stampo clerico-fascista, sponsorizzata da papa Pacelli e dai Comitati civici. Da allora il leader della Dc non fu più ricevuto, neppure in udienza privata, da Pio XII, il che non gli impedì di reggere le sorti del governo nazionale senza mai venir meno ai suoi sentimenti di appartenenza cattolica e ai suoi doveri verso il paese e verso la Costituzione.
Questo preoccupa Benedetto XVI e i vescovi italiani: che i cattolici democratici, messi con le spalle al muro dall'intransigenza ruiniana, abbiano rifiutato di essere passiva cinghia di trasmissione ponendo così un argine alla clericalizzazione delle istituzioni.
Non li preoccupa né Diliberto né Pecoraro Scanio né Rifondazione comunista, bensì i Franceschini, i Letta, le Bindi, gli Scoppola e, soprattutto, Romano Prodi che va a messa e frequenta i sacramenti tutte le domeniche. Si ritrovano – i vescovi – in compagnia del paganesimo berlusconiano con il rischio di un neo-temporalismo profumato alla cipria del Bagaglino anziché all'incenso delle basiliche.
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Si dice – talvolta l'ho detto anch'io – che il potere politico è debole. Ha un pensiero debole. Inclina al compromesso. Si vorrebbe una politica che scelga senza se e senza ma. E poiché i se e i ma abbondano, se ne conclude che la politica non fa il dover suo e le si contrappone il deposito dei valori della religione, alimentati dall'intransigenza della fede.
Ma si è mai vista nella storia una politica senza compromessi? La politica si nutre di compromessi, procede per sintesi, non si ferma mai ad una tesi intransigente o ad un'intransigente antitesi, salvo in regimi di dittatura o, peggio, di totalitarismo.
I regimi liberali e ancor più quelli liberal-democratici amministrano organismi complessi, interessi plurimi e spesso contrapposti. Debbono pertanto rappresentarli tutti superandone i particolarismi, includendo e non escludendo, trovando il denominatore comune.
Il pensiero debole della politica coincide con compromessi deboli e privi di obiettivi forti. E in quei casi debbono essere vigorosamente criticati. La politica è l'arte del possibile, quindi del dialogo e dell'accordo al più alto livello possibile. Cavour voleva fare un grande Piemonte nel 1857 e si accordò con la Francia di Napoleone III. Poi l'obiettivo cambiò e divenne assai più ambizioso: volle fare l'Italia. Si alleò con Garibaldi, con Ricasoli, con Minghetti e con l'Inghilterra. Si sarebbe alleato anche col diavolo se fosse servito.
Quale politica non fa compromessi? Perfino Cesare li fece. Perfino Napoleone. Hitler no, non li fece. Voleva sterminare gli ebrei e li sterminò. Voleva conquistare tutta l'Europa e c'era quasi riuscito se non ci fosse stato Pearl Harbor e se Roosevelt non si fosse alleato con Stalin. Ma Hitler non era un politico, era un pazzo criminale. Antipolitico per eccellenza.
Anche la Chiesa ha fatto compromessi. Perfino con Hitler. Con Mussolini. Con Franco. Con Breznev. Con Jaruzelski. Con Gorbaciov. Tutte le volte che le è convenuto ha stipulato concordati. Non è forse un compromesso il concordato? Si patteggia, si dà e si prende.
La fede non fa compromessi. Ma la fede riguarda la coscienza individuale, non le organizzazioni che l'amministrano. La Chiesa e la sua gerarchia sono il corpo che riveste la fede. Talvolta il corpo esprime e realizza l'anima, talaltra la rinserra nei suoi corposi interessi mondani. Questo è sempre stato il rapporto tra la gerarchia dei presbiteri e la comunità dei fedeli. Lo scontro tra il modernismo e il Vaticano ebbe proprio questa motivazione. Finì con la persecuzione dei modernisti della quale c'è traccia evidente perfino nel Concordato del '29. Il cristianesimo diffuso dalla predicazione degli apostoli è la religione dell'amore. Ma non sempre.
* * *
È singolare che nel dibattito in corso tra il Vaticano e il governo italiano nessuno (salvo i radicali) abbia menzionato il Concordato. Come se non esistesse più. Come se fosse caduto in desuetudine. Come se non fosse stato recepito nella Costituzione del 1947.
Infatti è caduto in desuetudine. O meglio: sta in piedi soltanto a tutela dei benefici che ne riceve la Chiesa. I limiti che la Chiesa ha pattuito con lo Stato sono stati invece superati.
Il deputato Capezzone, tanto per dire, si è stupito l'altro ieri perché si aspettava che il governo protestasse con la Santa Sede per l'irritualità compiuta dalla Cei con l'irruzione palese e anticoncordataria compiuta nei confronti del potere legislativo, così come il governo aveva ritenuto irrituale l'intervento dei sei ambasciatori che ci invitavano perentoriamente a restare in Afghanistan senza se e senza ma.
Ha ragione Capezzone. Ma ha ragione anche il governo. Il Vaticano in Italia è infinitamente più forte degli ambasciatori dei sei paesi alleati. È più forte come potere temporale. Pretende di dirigere le coscienze dei fedeli anche – anzi soprattutto – quando rivestano cariche ministeriali o siano membri del Parlamento. Chiede, anzi pretende obbedienza.
Ho letto l'intervista di Rosy Bindi su Repubblica di ieri. Dice: "Abbiamo scritto una legge giusta che tutela i più deboli, riconosce diritti alle persone discriminate, non crea nessuna figura giuridica che possa attentare alla famiglia. L'insegnamento cattolico parla di valore della giustizia, di pace, di libertà personale, di accoglienza perfino dell'errore. Di carità e di misericordia… Un politico non deve sentirsi referente di nessuno. Il mio referente è il Paese e la mia coscienza cattolica".
Ebbene, questo è il punto che per i vescovi italiani ha l'effetto d'un panno rosso davanti a un toro infuriato: il fatto che il laicato cattolico democratico abbia come riferimento la Costituzione e la propria coscienza cattolica e sulla base di questi due riferimenti fondamentali arrivi a conclusioni difformi da quelle della gerarchia ecclesiastica. La considera una ribellione perché ha perso la nozione esatta della parola Ecclesia. Che non distingue tra presbiteri e fedeli. Ecclesia è la comunità cristiana, è comunione partecipata perché tutti prendono il corpo eucaristico del Cristo, tutti nello stesso momento e alla stessa mensa. La grazia non passa attraverso l'intermediazione dei presbiteri, ma il Signore la dispensa direttamente ai fedeli che credono in lui e da lui prescelti.
Il neo-temporalismo è il contrario di tutto ciò. Non a caso Paolo VI ritenne la fine del temporalismo "un fausto evento per la Chiesa". Ma in realtà a partire dal pontificato di papa Wojtyla fino ad oggi la Chiesa sta devitalizzando i contenuti più significativi del Concilio Vaticano II e i due pontificati di Giovanni XXIII e di Paolo VI. L'ha scritto a chiare lettere Pietro Scoppola nel suo articolo di tre giorni fa su Repubblica.
Questo è il senso dell'operazione in corso, di cui il disegno di legge sulle convivenze non è che il pretesto.
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Si dice che il pensiero laico sia debole. Capisco perché lo si dice: i laici (qui intesi come laici non credenti) non hanno né papi né cardinali né vescovi né preti. Ciascuno parla per sé e rappresenta solo se stesso. Per fortuna.
Non significa che un pensiero laico non esista e neppure che sia debole. Al contrario è forte, è lucido, è coerente alle sue premesse e nella sua dialettica con i clerici. Basta aver letto i più recenti prodotti di questo pensiero pubblicati questa settimana dal nostro giornale: l'articolo di Ezio Mauro e quello di Gustavo Zagrebelsky a proposito del "non possumus" episcopale.
I laici sono favorevoli allo spazio pubblico che spetta alla Chiesa, per ampio e crescente che sia, e ascoltano la sua parola con interesse traendone elementi di positiva riflessione e di rispettosa accoglienza quando ve ne siano, contestando elementi di intolleranza e tentazioni teocratiche che spesso, purtroppo, vi sono.
I laici non sono anticlericali, anche se l'episcopato italiano sta facendo il possibile per farceli diventare. Ma i laici hanno come solo punto di riferimento il patto costituzionale. Su quel patto si fonda la Repubblica italiana e in esso ciascuno trova le radici della sua identità.
Perciò mi stupisco molto di coloro che sarebbero pronti ad accettare i patti di convivenza purché limitati agli eterosessuali. La Costituzione vieta in modo esplicito che la legislazione possa introdurre norme discriminanti nei confronti dei cittadini per ragioni di etnia, di religione, di sesso. Un regime di convivenza che discriminasse gli omosessuali cadrebbe ovviamente sotto la scure della Corte costituzionale e, prima ancora, sotto quella del Capo dello Stato secondo i poteri e le modalità che gli sono attribuiti.
Quindi tutto è molto chiaro. I laici vogliono il rispetto della Costituzione e di conseguenza anche del Concordato. Qualcuno, prima o poi, chiederà alla Corte se il Concordato sia ancora in vigore o sia gravemente leso. E qualora lo fosse, quali siano gli strumenti atti a recuperarne il rispetto o a proclamarne la decadenza per doveroso recesso della parte lesa.