Lunari una vita per il teatro

20 febbraio 2009 | 11:43
Share0
Lunari una vita per il teatro

Luigi Lunari, nato a Milano nel ’34, da tempo si è trasferito a Brugherio, autore teatrale di fama internazionale, nella sua lunga carriera si è occupato di teatro in varie direzioni, dedicandosi anche all’insegnamento universitario, alla saggistica, alla critica.

Luigi Lunari, nato a Milano nel ’34, da tempo si è trasferito a Brugherio, autore teatrale di fama internazionale, nella sua lunga carriera si è occupato di teatro in varie direzioni, dedicandosi anche all’insegnamento universitario, alla saggistica, alla critica.  Per più di vent’anni – dal 1961 al 1982 – ha collaborato con Grassi e Strehler al Piccolo Teatro, esperienza dalla quale nascerà, nel 1991, il romanzo teatrale “Il maestro e gli altri”.lunari

Signor Lunari, spesso nelle interviste che ha rilasciato ha definito la sua vita “normalissima, medio-borghese, scandita in modo banale: laurea a ventidue anni, matrimonio a ventisette, primo figlio tre anni dopo, dopo tre anni il secondo, nonno a sessant’anni”. Quanto pensa che la vita di un uomo d’arte debba rispecchiare quell’idea di “genio e sregolatezza”? In che modo sono legate arte e vita?

Penso che in un’epoca di stasi, di tranquillità bovina e soddisfazione dormiente, l’artista debba indicare dei sintomi di ribellione, estemporaneità, bizzarria. In un’epoca invece in cui tutto sembra sfaldarsi, dove non c’è più possibilità di scandalo, perché tutto è dato per scontato, allora credo che l’intellettuale debba dare un esempio di calma, di tranquillità, di ancoraggio a valori solidi. Non so dire se le mie opere ripeschino il mio atteggiamento di vita. Io amo molto l’eleganza della forma, è un valore solido e sicuro. Tutte le mie opere possono essere più belle o più brutte, ma sono sempre formalmente molto “eleganti”. Poi i contenuti variano, anche a seconda dell’ispirazione. Io ho dei temi comuni: uno è la satira politica e l’altro è una concezione molto serena e tranquilla della morte. C’è una mia opera, che si chiama “Il canto del cigno”, in cui il protagonista viene visitato dalla morte, personificata da una bella ragazza, dolce e sensuale, immagine molto diversa dallo scheletro col mantello nero e la falce.

Ancora, lei ha dichiarato: “Sono attento a non avere un rapporto troppo stretto con qualcosa o qualcuno, in modo da potere, all’occorrenza, andarmene sbattendo magari la porta. È una condizione di indipendenza che però ha il suo prezzo. Si è liberi, ma non si è nessuno”. Lei dunque si ritiene un “signor nessuno”?

Mi definisco un “nessuno” perché a questo mondo bisogna avere una faccia televisiva, un pulpito, una cattedra. Io non ho niente, perché sono sempre stato attento a non avere un padrone. Certo ad un certo punto ci si isola, si resta da soli e se si ha la forza nelle proprie opere si sopravvive, altrimenti no. Anche perché c’è molta più concorrenza, c’è la necessità di far parte di qualche casta. Nel mondo di oggi contano più le conoscenze della conoscenza, e senza raccomandazioni non si va da nessuna parte.

Come quindi essere qualcuno?

Per essere qualcuno bisogna essere “in”, avere una faccia televisiva. Il successo a cui miro io, quello delle opere che si impongono per la loro qualità, è certamente più difficile e faticoso e molto meno remunerante nell’immediato. 

Oggi, quale direzione sta prendendo il teatro?

Oggi è cambiato tutto. Ronconi fa spettacoli in quattro e quattr’otto, quando Strehler ci stava su anche un mese o più per ottenere un particolare effetto. Non so se sia meglio o peggio. Ma sono i ritmi della produzione. Purtroppo il danaro rovina tutto. Io credo che il teatro vada verso l’amatorialità, perché di soldi per il teatro non ce n’è più. Le preoccupazioni sono altre. C’è un accumularsi di costi che rende indisponibile il soldo per l’arte. Oggi è necessario che ciascuno sia mecenate di se stesso e si mantenga da solo a fare quello straordinario inutile che è l’arte. Io penso ad una situazione amatoriale in cui forse ci sarà anche un décalage di qualità, in cui sopravviveranno sicuramente i fuoriclasse strapagati, ma saranno un’eccezione.

Del resto prevedere dove andrà il teatro è come fare un piano regolatore durante un terremoto: le cose cambiano troppo velocemente per fare delle previsioni. 

Parliamo dello spettacolo “Rosso profondo”. Penso che sia una soddisfazione vedere rappresentata una propria commedia nella città che lo ha adottato…

Sì, certo, fa piacere. Anche perché in Italia le mie opere sono poco rappresentate. Vanno molto all’estero, ma in Italia meno. D’altra parte Svevo si è visto rappresentato una volta sola in vita sua, lo stesso Pirandello negli ultimi anni della sua vita ha fatto molta fatica. C’è poi una certa anglomania imperante…