Lissone, la II guerra mondiale vista con gli occhi di un soldato. Lettera al giornale

9 ottobre 2013 | 10:49
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Lissone, la II guerra mondiale vista con gli occhi di un soldato. Lettera al giornale

Lettera al giornale del lissonese Umberto Lucignoli, la II guerra mondiale vista da dentro. “Milioni di soldati diedero la vita affinchè le generazioni che susseguirono avessero un futuro migliore. E’ stato davvero così? Io dico di no!”.

Riceviamo e pubblichiamo una lettera di Umberto Lucingoli, classe 1923, residente a Lissone. Una lunga testimonianza di un brianzolo che, sull’onda dei ricordi, ripercorre una pagina tragica della storia internazionale: la seconda guerra mondiale, 1940-1945.

“Milioni di soldati diedero la vita affinchè le generazioni che susseguirono avessero un futuro migliore. E’ stato davvero così? Io dico di no!”.

Di seguito la missiva integrale.

GRANDE GUERRA 1940 – 1945

 Piccola e vera storia di un soldato semplice nato
il 08/07/1923 a Ge-Sampierdarena
di
Lucingoli Umberto

umberto_lucignoli_2Nel 1942 fui chiamato alle armi e fui assegnato alla 157/a DIV. Novara – Rgt. 153° 154° di stanza a Novara.
Previo breve periodo di addestramento sul lago d’Orta, rientrammo alla base, da dove era imminente la prossima partenza con destinazione Russia. Ci assegnarono tre giorni di licenza, per il saluto ai famigliari. Al rientro ci comunicarono che saremmo partiti per Mostar nei Balcani per sedare una rivoluzione in atto. Ci trasferimmo a Fiume dove ci imbarcammo sulla nave Italia a Rgt. completo 1°-2°-3°-4° compagnia, destinazione Sebenico. Questa città era protetta, all’entrata del porto da rocce naturali. Da lì ricevemmo il battesimo del fuoco con raffiche di mitragliatrici e fucili, che non fecero danno perché la cosa era ormai risaputa dagli ufficiali di marina. Dovevamo pernottare a Sebenico, ma venne un contrordine e partimmo subito, via terra, destinazione porto di Ploce. Io, intanto, ero in preda ad un forte attacco di febbre dovuta alla stanchezza con la complicità di qualche sorso di Marsala offertami da un commilitone. Arrivati a destinazione chiedevo aiuto, ma nessuno mi ascoltava, allora mi stesi per terra in mezzo alla strada carrabile. Comandante del reggimento era il Maggiore (non ricordo il nome) me lo ritrovai in piedi presso di me. Mi disse di stare pure sdraiato e mi chiese come mi sentissi. Gli risposi che avevo la febbre alta, mi chiese l’età, quindi diede degli ordini e mi trasportarono nei magazzini della prima compagnia a cui appartenevo. Il responsabile (magazziniere) era anziano (33 anni – volontario) e si chiamava Meani o Manni (non ricordo bene il nome) era una persona stupenda e con lui ho passato una decina di giorni bellissimi.
Venne infine l’ordine di rientro e fui trasferito al comando della 1° Compagnia a cui appartenevo che si trovava in altura in Caposaldo a protezione della sottostante costa.
Mi presentai al comandante di compagnia che era un tenente, non capitano, come avrebbe dovuto essere. Quando gli dissi che avevo fatto la terza commerciale si interessò alle mie capacità di tenere il “libro giornale” della compagnia ed alla mia risposta positiva mi propose un periodo di prova perché dovevo sostituire il furiere titolare: Sergente maggiore Comuzio di Milano – viale Zara – in licenza straordinaria. I soldati, tutti compresi, anche gli ufficiali hanno bisogno del furiere. Io espletai l’incarico assegnatomi con competenza ed equità guadagnandomi la stima e l’amicizia di tutta la Compagnia. Il comandante, a cui piaceva forse un po’ troppo bere, mi affidò anche l’assaggio del rancio prima della distribuzione. Cosa molto piacevole perché i cuochi mi riservavano il cibo che cuocevano per il tenente.
Venne infine l’ordine di lasciare il Caposaldo perché il battaglione entrava in azione con compiti di rastrellamento nell’entroterra del territorio di competenza.
Gli esploratori appartengono al plotone Comando: il loro compito è di andare in avanscoperta davanti alla Compagnia per dare, alla stessa, sicurezza nell’avanzata. Venivano a turno usati gruppi di 6, 8 o anche 18 uomini, a seconda del raggio d’azione. Il comandante del Rgt. era un tenente colonnello dell’esercito e durante il suo comando non abbiamo mai avuto scontri di una certa entità.
Il pericolo maggiore era rappresentato dai tiratori scelti che usavano fucili a lunga gittata con pallottole prorompenti – i famosi fucili che furono chiamati TA-PUM.

Faccio una parentesi per ricordare che al Car (lago d’Orta) mi ero fatto un amico vero.
Si chiama o si chiamava Arena ed era sardo. Un bel ragazzo che piaceva molto alle ragazze e ciò avvantaggiava anche me. Comunque non era questa la vera ragione. L’amicizia nasce da una sensazione di stima, lealtà e da un’immensa certezza di sicura fiducia che mai verrà meno.

E fu proprio l’esploratore Arena, in un’azione di avanscoperta, il primo ferito del nostro plotone. Il foro di una pallottola Ta-Pum è orribile, ma trapassò la coscia senza toccare l’osso. Io perdetti la compagnia di un amico, ma lui acquistò la libertà di licenza di convalescenza. Se fosse ancora di questo mondo, chissà se si rammenterebbe di me? Santo Cielo sono passati 70 anni! Un’eternità.

Intanto al comando del battaglione subentrò un ufficiale superiore delle Camicie nere ed immediatamente la musica cambiò. La nostra azione diventò sempre più pressante con perquisizioni, anche notturne. Scovavamo con più facilità i nuclei armati che, con sommario e veloce processo, venivano immediatamente passati per le armi, oppure abbattuti mentre cercavano di scappare. In uno di questi casi mi sono trovato coinvolto: il comando era alloggiato in un casolare in cima ad un promontorio ed io, con sei uomini, mi trovavo in basso presso un ruscello per approvvigionare acqua. Improvvisamente echeggiarono alcuni spari e vedemmo un partigiano armato di pistola correre giù verso di noi. Stava scappando. Dall’alto mi gridarono di fermarlo ed io mi sentii gelare il sangue ma diedi l’ordine di puntare e sparare. Grazie al cielo sono stato preceduto da una raffica di mitragliatori provenienti dall’alto. Il corpo, privo di vita, di questo giovane ribelle si fermò a pochi metri dai miei piedi. La mia coscienza era salva ma non l’amarezza di constatare di essere un intruso in casa d’altri e mi sentii colpevole come se avessi premuto io il grilletto dell’arma. Per rimanere in tema, vi dirò che due giorni dopo eravamo appostati a circa 15 metri dagli argini di un torrentello quasi asciutto, mentre dall’argine opposto sorgeva un costone, quasi verticale, alto un qualche centinaio di metri che a circa 20 metri dal torrente aveva due fosse simili ad orbite vuote, che erano due grotte. Il sergente maggiore del mio plotone, un fegataccio che è meglio averlo come amico, mi fece osservare che dentro una roccia si notavano dei lampi di luce e così riportammo il fatto al nostro comandante. Alla fine del giorno seguente, era sicuro che ci fosse un movimento all’interno di luci ed ombre, rilevato dai nostri apparecchi ottici. Il comando decise di occupare o conquistare l’interno della grotta. Sei uomini pratici di scalate, al primo buio, dopo un giro vizioso, si appostarono sopra la bocca della roccia mentre dalla nostra postazione aprimmo un fuoco rapido dentro la roccia stessa. Sospeso il fuoco i nostri sei scalatori, previo lancio di alcune bombe a mano, saltarono dentro la roccia e ci comunicarono che l’azione era terminata positivamente. Avevano catturato due partigiani: marito e moglie ed un rilevato numero di armi. Sono stati messi in una tenda e piantonati in sicurezza. Dopo il solito processo rapido e sommario, il mattino dopo li misero davanti al plotone di esecuzione mentre la donna non piangeva, ma in ginocchio continuava a gridare “Kukumele-Kukumele!” che vuol dire “mio Dio – mio Dio!”, finchè una scarica la portò nella pace eterna. Ad una certa età dimentichi tante cose, ma queste atrocità, anche se vuoi cacciarle, ritornano e ancora, mi turbano perché mio malgrado mi sento complice di un atroce assassinio: erano martiri che davano la loro vita per liberare la loro terra dall’usurpatore.

E’ passato tanto tempo, potrei sbagliare mese, però credo fosse il marzo del ’43. Giungemmo ad Almissa, già allora meta balneare. La nostra Compagnia fu dislocata nel cimitero della città. Il cimitero era composto da una grande fossa centrale di forma rettangolare dove venivano sepolti i cosiddetti defunti non abbienti e veniva chiamata fossa comune. Intorno, un piccolo numero di tombe singole. La postazione non era delle più allegre, ma la posizione era strategica perché situata a circa 20/25 metri sopra il mare con parete perpendicolare. Era l’ora che precede la notte ed eravamo intenti a preparare l’accampamento. Così fecero anche la 2°, 3° e 4° compagnia lungo la costa. Improvvisamente scoppiò l’inferno: ci attaccarono dall’alto con raffiche di mitragliatrici e fucili. Fortunatamente eravamo a ridosso del primo muro d’entrata del cimitero che era alto più di cinque metri e perciò i danni furono lievi: cinque feriti non gravi.
In mare ci seguiva, a guardia della costa, un pontone armato di cannone da 75.
Il pontone cominciò il bombardamento delle retrovie ed i mortaisti della 3° compagnia indirizzavano il fuoco di sbarramento davanti al fronte avanzato del nemico. Noi ricevemmo l’ordine di avanzata ma fummo fermati da raffiche di una mitragliatrice pesante e da nuclei di fucilieri schierati a raggio. Prima di proseguire debbo far conoscere il soldato di nome Alfano che nel mio plotone comando svolgeva l’attività di calzolaio. In caposaldo, prima di partire in rastrellamento, ci fu un’ispezione agli zaini e nel suo c’erano una ventina di tomaie non registrate e pertanto fu accusato di furto ai danni dello Stato e deferito alla Corte Marziale.

Senza dubbio era prigione sicura e lui, cosciente di cosa lo aspettava, tentò di riabilitarsi compiendo un atto eroico.

Tolse la sicura ad una bomba a mano e balzò in avanti e tentò di colpire la mitragliatrice. Non ci riuscì perché venne raggiunto da una raffica che gli aprì una ferita verticale dalla coscia fino al tallone della gamba sinistra e cadde per sempre. Dopo pochi minuti tutto il fronte avanzato nemico fu distrutto dalle nostre armi pesanti e noi potemmo avanzare. Io e due barellieri ci chinammo solo per constatare la morte del soldato Alfano, il quale preferì morire pagando con la vita il riscatto della sua onestà. Le nostre forze preponderanti costrinsero la brigata partigiana a retrocedere nella boscaglia e fuggire verso i loro rifugi. Di mattina alle ore 6.30 circa conquistammo la vetta della montagna, non ne ricordo il nome, ma la perfetta altezza sì: 1421 metri esatti.

umberto_lucignoli_3Lì in vetta, sperduto e vagante, c’era un cavallino da montagna con tanto di basto in legno e una criniera lunga, lunga e nerissima, che gli accarezzava il collo. Magrissimo con gambe sottili da arrampicatore puro. Ho fatto pure a pugni perché un certo cap. mag. Malanga ne pretendeva la proprietà. Le ho prese ma anche date ed infine il cavallino me lo sono tenuto. Tanto era magro che lo chiamai “Stecca”. Due giorni dopo riprendemmo il rastrellamento assieme ad un plotone di Ustascia, corpo speciale composto da iugoslavi diventati fascisti o qualcosa di simile. Noi diffidavamo da loro ma ciò non toglie che ci aiutarono a scovare parecchio materiale bellico e anche rifugi di partigiani che da soli non avremmo mai trovato. In uno di questi casolari in pietra un soldato del mio plotone scovò, nascosto sotto una specie di lavandino, un fagotto con dentro una divisa di bersagliere insanguinata con sette tagli di pugnale. La casa era abitata da un vecchio di 65 anni e da una ragazza diciottenne molto bella, figlia del vecchio. Ho mandato a chiamare il sottotenente che dirigeva l’azione di rastrellamento, mentre i soldati, visto lo scempio operato sulla divisa insanguinata, volevano uccidere sul posto padre e figlia, ma il tenente ed io avemmo il nostro da fare per impedirlo. Chiamammo un Ustascia come interprete ma, mentre la ragazza continuava a dire che non ne sapeva nulla, il vecchio padre non parlava. I due furono legati ed incolonnati con altri prigionieri ma piantonati a vista perché considerati particolarmente pericolosi. Tornati alla base furono subito internati. Non ne seppi più nulla ma mi era rimasto impresso quel viso d’angelo dagli occhi azzurri che chissà quale terribile tragedia nascondeva. Vittime od aguzzini? In guerra, tali enigmi resteranno sempre senza risposta.

A fine maggio il battaglione restò bloccato in una radura piana tra avvallamenti. Tiri incrociati di mitraglia e fitti spari di Ta/pum che, già sapete, sono fucili a lunga gittata e con pallottole esplosive. Noi eravamo in forze superiori e potevamo uscire dall’impass ma correvamo il rischio di perdite, che giustamente il comandante voleva evitare. Rimanemmo due giorni fermi, protetti da gobbe naturali del terreno, quindi il comando chiese l’intervento di forze provenienti dall’esterno dell’accerchiamento e puntualmente arrivarono una o due compagnie di bersaglieri, che senza la perdita di un uomo fecero fuggire gli accerchiatori, i quali subirono perdite. Per lopiù prigionieri.

Via dall’entroterra arrivammo al mare, sempre nei pressi di Almissa, e su un prato dove c’era una capsula che allestimmo al comando e ci accampammo sino a nuovo ordine.

Quei giorni di dolce far niente furono magnifici, cielo e mare si univano ad un sole splendente e davano riposo alla mente e vigore fisico. Quella non era guerra ma un dopo di Dio. Io però accusavo un leggero dolore al basso ventre e ne feci menzione all’Ufficiale medico, neo-laureato di 28 anni e di nome Marco De Ponti (se non sbaglio). Mi visitò e il responso era una leggera infiammazione al peritoneo. Mi prescrisse alcune pastiglie antinfiammatorie assicurandomi che sarei guarito presto. Poi sorridendo, cioè in tono scherzoso: “Se vuoi,ti opero di appendicite così avrai diritto ad una convalescenza di 30 giorni”. Lui rideva, ma io no! Mi informai se avesse già operato, perché essendo neo-laureato avevo qualche dubbio sulle sue capacità. A risposta positiva, mi espose le difficoltà di un intervento a cielo aperto con solo etere per l’anestesia totale, mentre aveva una perfetta dotazione di strumenti e ferri chirurgici. La decisione fu immediata e diedi il mio consenso.

Dopo tre giorni di digiuno e assoluto riposo fisico, la mattina del 30 luglio del ’43, mi fece sdraiare su un tavolo coperto da una tela cerata a sua volta coperta da un candido lenzuolo ed uno strato di cotone. Mi raccomandò di fargli segno con gli occhi se durante l’anestesia avessi accusato dei disagi. Arrivò l’infermiere con due boccioni di etere ed un sacco di bambagia (cotone).
Iniziò a versare l’etere sul cotone che mi copriva la bocca. Chiusi gli occhi e capii che non ero perfettamente addormentato perchè sentivo il dottore parlare. Aprii gli occhi e li feci roteare tanto che riuscii a farmi capire. Mi fecero inalare ancora le esalazioni dell’etere e mi addormentai.

Al risveglio mi dissero che l’operazione era andata molto bene e che mi attendeva solamente la tanto sospirata licenza. Ma non fu così: sentivo dolore alla ferita, il ventre si stava gonfiando e malgrado il medico mi assicurava che l’infiammazione sarebbe passata con pastiglie atte allo scopo, il 10 agosto la ferita scoppiò e fuoriuscì una valanga di pus. Il dottore mi ripulì e rabberciò la ferita con dei punti metallici. A quel punto il sottotenente medico si scusò per l’accaduto e mi informò che l’infezione era molto estesa e di conseguenza lui non era più in grado di curarla, pertanto doveva mandarmi immediatamente all’ospedale militare di Ragusa, con l’autolettiga che il battaglione aveva a disposizione. Prima di sera giunsi a destinazione.
L’ospedale era un grande casermone con alcune decine di camerate corredate di castelli doppi così vicini uno dall’altro che il passaggio di fianco era quasi impossibile. Non potendo saltare, o meglio camminavo appena a fatica, mi assegnarono un letto basso. Dopo un mese nessuno mi aveva visitato, solo l’infermiere mi portava delle pastiglie antinfiammatorie. Non mangiavo quasi più perché le mascelle si stavano serrando sempre più ed ero tutto gonfio specialmente il ventre. Ero disperato e mi stavo giorno per giorno rassegnando di essere procinto alla fine. Dico rassegnando perché ciò che feci, l’avevo voluto io. Troppo pretesi dalla mia buona sorte. Ma come si suol dire la speranza è l’ultima a morire. Un pomeriggio sentii un soldato che diceva di essere stato assegnato a fare il piantone ad una commissione della sanità, che doveva vagliare il rilascio o meno di licenze di convalescenza. Da quel momento fui l’ombra del soldato ed alla mattina, raccogliendo le mie ultime forze lo seguii fino all’agognata meta. Cominciò il via-vai dei soldati convalescenti, mentre io tenevo d’occhio il piantone sperando che si sarebbe mosso nel corso della mattina. Lasciando incustodita la porta della sala della commissione, l’occasione capitò: un ufficiale aprì e disse qualcosa al piantone che si precipitò fuori dalla sala d’attesa, per espletare l’ordine ricevuto.

Mi alzai e quando fui vicino alla sospirata porta, la spalancai ed entrai precipitosamente. Un ufficiale mi chiese se avessi i documenti. Al mio diniego m’invitò ad uscire ma io fui più lesto e tirai giù i pantaloni, mutande comprese e lo spettacolo che l’ufficiale vide fu raccapricciante.

Il pus mischiato alle bende sporche offriva uno spettacolo stomachevole e maleodorante. Il piantone, tornato sul posto, mi trascinò fuori, ma l’ufficiale superiore (mi sembra fosse Maggiore o Tenente colonnello), lo mandò via e parlò sommessamente ai due ufficiali inferiori. Mi fece tirare su i calzoni e mi fece sedere. Più a cenni che a parole ed anche con qualche tremolante scritto, gli feci intendere lo stato precario in cui mi trovavo. Capì perfettamente la mia situazione e quasi con la brutale intenzione di ferirmi mi disse: “La tua ferita è ad un punto di non ritorno. Qui non possiamo tenerti. Io ti mando in licenza di convalescenza, si fa per dire. Il capitano che è qui a fianco a me ti darà delle pillole che tenderanno a calare o a fermare l’infezione. Domani alle ore 8 di mattina ti imbarcherai sulla nave Italia che farà scalo all’isola di Cursula. Acquisterai o ti farai acquistare almeno 3 kili d’uva che ingerirai aprendo i denti bloccati, con il manico di un cucchiaio, strizzando la polpa dell’uva in bocca. Questa è un’operazione che dovrai fare costantemente tutto il giorno e se è possibile anche la notte. Se funziona, unitamente ai medicinali, tu fra tre giorni sarai a Fiume , un po’ acciaccato ma ci sarai. Lì penseranno a rimetterti in sesto. Non approvo quello che hai fatto, ma apprezzo il tuo coraggio da incosciente, che sempre coraggio è!”

La nave Italia è la stessa che mi portò in Croazia e questo era già un buon segno. Intanto quello che avevo sperato si stava avverando. E in un istante scordi tutti i cattivi pensieri, il peso della colpa e si centuplica la forza di vivere, vivere e poi ancora vivere, che ti permette di vincere la grande battaglia della vita.

Aveva ragione l’ufficiale che credette in me. Arrivai a Fiume, non vegeto ma vivo, si vivo e con tanta voglia di pensare serenamente al futuro. Cielo, sole, mare e tante altre bellezze naturali che mi circondavano mi commossero. Quel giorno piansi.

Il Maggiore comandante del posto di blocco di confine mi accolse con un entusiasmo che mi dava da pensare. In tre giorni mi fece mettere a nuovo con accurate disinfezioni. Le cure dei dottori dell’ospedale da campo mi giovarono tanto che muovevo la bocca e riuscivo a mangiare ed a camminare senza strisciare i piedi. La ferita si stava sgonfiando e piano piano iniziava a rimarginarsi. A quel punto mi chiamò a rapporto il comandante per un colloquio privato. Mi disse che mi avrebbe dimesso subito e che prima di sera sarei partito per Milano con un treno abbastanza rapido addetto a trasporti di carattere bellico. Quindi mi parlò di un incarico delicato e privato che voleva affidarmi, confidando nella mia onestà. Mi consegnò una scatola ben fasciata con cera laccata grande cm. 30x30x15 circa (a misura d’occhio) e pesante circa 1 kilo e mezzo. Dovevo consegnarla a Milano in via Vitruvio al n° 21 (il nome non lo dico perché ho garantito il segreto e poi in verità non me lo rammento più). Promisi e mantenni la parola data anche se in qualche momento ho dubitato di farlo. Il Maggiore mi promise che al rientro mi avrebbe assegnato una seconda licenza.

Per la cronaca: sono rimpatriato il 3 settembre 1943 – l’8 dello stesso mese l’Italia capitolò.

A Milano, arrivato in zona Ponte Seveso, trovai il tranvaino verde con capolinea Cinisello Balsamo.

Quante volte avevo fatto quel tragitto senza rendermi conto di quanto fosse prezioso. Ora, man mano che sferragliava verso la meta, mi resi conto che volevo bene a quel tranvaino, perché mi stava portando a casa.

Prima di partire avevo scritto alla mia famiglia, ma arrivai prima io della lettera, perciò l’incontro fu superiore alle aspettative. La gioia durò poco perché appresi che mio fratello maggiore era in Germania e da tempo non si avevano sue notizie. Grazie al cielo si salvò.

La mia storia della ferma militare in Croazia termina qui. Sono un combattente all’acqua di rose che ha fatto il suo dovere sino ad un certo punto. Non tutti siamo perfetti. Ma con la certezza di essere stato baciato dalla fortuna o graziato da una presenza che sta sopra di noi.

Milioni di soldati diedero la vita affinchè le generazioni che susseguirono avessero un futuro migliore. E’ stato davvero così? Io dico di no!