
Al termine del nostro viaggio tra Usa, Europa e Australia, abbiamo cercato di identificare variabili e costanti nelle storie dei giovani che hanno parlato con noi.
Vi abbiamo presentato i ritratti di 5 under 30 “made in Brianza”. Grazie a loro abbiamo fatto un breve viaggio intorno al mondo, tra Europa, Usa, e Australia: le loro storie sono tutte allo stesso tempo simili e diverse, esemplificative di una realtà vasta varia.
Speriamo di aver contribuito ad abbattere almeno qualche pregiudizio: “gli italiani sono tutti bamboccioni”, ma anche “i nostri ragazzi sono obbligati a fare i migranti come i loro nonni”. Né l’uno, né l’altro: i giovani che partono dall’Italia non assomigliano per nulla ai loro antenati che lasciavano il Paese per sfuggire alla miseria. Sono preparati, altamente scolarizzati (dei ragazzi con cui abbiamo parlato, 4 su 5 sono laureati, 2 su 5 ricercatori) e, soprattutto, organizzati: hanno capito che è necessario essere decisi e consapevoli, che non vale la pena di partire “tanto per”, allo sbaraglio, che bisogna avere un progetto e informarsi, prima di comprare un biglietto aereo e lasciarsi tutto alle spalle.
La crisi c’è, e si vede, ma la novità è che i nostri giovani lasciano l’Italia (soprattutto) per altri motivi: vogliono mettersi alla prova, rendersi indipendenti, fare nuove esperienze. Molti sono partiti per approfondire la lingua inglese, e sono poi stati tentati da quel che hanno trovato: la possibilità di crescere professionalmente, di fare quel che in Italia non si poteva fare, di guadagnare di più. Per tutti, anche a causa della giovane età, questa è la prima esperienza di vita all’estero (nessuno dei nostri intervistati ha fatto l’Erasmus), ed è percepita molto seriamente: non un’occasione di “vacanza”, ma un momento di crescita, resa possibile proprio grazie alle inevitabili difficoltà (dal pagamento della bolletta, al bucato, alla capacità di ricostruirsi una quotidianità).
Gli intervistati sono orgogliosi di riuscire a cavarsela da soli, e consapevoli della propria scelta: «andarsene di casa non è comodo, anzi», «la mia non è stata una scelta facile», «ogni uomo è libero di vivere dove meglio crede, nell’intento di raggiungere felicità e ambizioni personali», «un’esperienza all’estero è un passo necessario in campo scientifico».
Quel che colpisce, soprattutto se pensiamo a certe descrizioni che siamo ormai abituati a leggere e sentire, è l’assenza di rancore verso l’Italia: le note dolenti sul nostro Paese non mancano, ma l’esperienza ha reso i ragazzi intervistati molto oggettivi. All’estero non è tutto rose e fiori, spesso la burocrazia rende difficile restare per più di 6 mesi (come nel caso degli Usa), i prezzi sono alti, bisogna sempre essere flessibili e disposti ad adattarsi.
D’altro canto, i nostri 5 brianzoli hanno avuto anche la possibilità di vivere in un contesto che è apparso meritocratico, più aperto e con più risorse in ambito accademico e di ricerca, con maggiori possibilità per i liberi professionisti. Tanto che solo uno è convinto che, prima o poi, tornerà in Italia: per gli altri, o sono subentrati altri fattori a rendere preferibile la vita lontano dall’Italia («vivere qui mi ha cambiato, dalle piccole cose, come l’abitudine del caffè, fino al mio stile di vita e al mio modo di pensare»), o il ritorno è comunque subordinato a condizioni che, ormai, non sono più trattabili: «tornerei solo se avessi la possibilità di fare un lavoro all’altezza dei miei sogni», «mi piacerebbe poter tornare in Italia con una posizione che mi permetta di continuare il mio lavoro di ricercatore». Quanto questo peserà sulle sorti del nostro Paese, se tanti altri “cervelli” decideranno di “fuggire”, potrà vedersi solo tra qualche anno, anche se le conseguenze sono facilmente preannunciabili: impoverimento culturale e, di conseguenza, anche economico ed industriale.
Una curiosità: solo uno degli intervistati è iscritto all’Aire. Gli altri o ne ignorano l’esistenza, o sanno che dovrebbero iscriversi, ma hanno rimandato. Forse non è il caso che l’unico iscritto sia il più “grande” del gruppo (relativamente: i ragazzi con cui abbiamo parlato hanno tutti tra i 25 e i 29 anni), e che abbia quindi una maggiore coscienza di responsabilità anche politica (essere iscritto all’Aire è indispensabile per poter votare).
Un quadro tutto sommato positivo, dunque. Meno disperato e meno improvvisato di quello che molti dipingono: i giovani sembrano aver capito che il mercato estero è saturo, e che vale la pena andarsene solo per fare qualcosa che in Italia non si riesce a realizzare, fosse anche solo l’approfondimento di una lingua straniera. Quel che è certo è che quest’esperienza, sia essa temporanea o destinata a prolungarsi, è considerata fondamentale per acquisire una mentalità culturalmente più aperta, motivo di crescita sia personale che professionale. I ragazzi con cui abbiamo parlato sono inevitabilmente più adulti dei loro coetanei rimasti a casa: parlano una nuova lingua (tutti rifuggono dal restare chiusi “nel gruppo degli italiani”, e si integrano con i locali e gli altri stranieri), si prendono carico di responsabilità nuove, e imparano, anche a loro spese, quanto possa pesare vivere lontano dalla famiglia e dagli amici più cari.
A noi non resta che augurare buona fortuna a tutti voi – a chi ci legge, magari da un Paese straniero, a chi si sta organizzando per partire, e a chi stringe i denti e vuole restare e migliorare il posto dove vive.
by G.S.
In foto in apertura Alice Molteni