Tamara Lunger, come una delusione d’amore porta in cima al K2

L’alpinista Tamara Lunger ha incantato coi suoi racconti su “Il fascino del freddo” il folto pubblico invitato a Bevera di Sirtori dalla catena commerciale DF Sport Specialist.
L’alpinista Tamara Lunger ha incantato coi suoi racconti su “Il fascino del freddo” il folto pubblico invitato a Bevera di Sirtori dalla catena commerciale DF Sport Specialist per gli appuntamenti di “A tu per tu con i grandi dello sport”.
Sudtirolese di 31 anni, ex campionessa mondiale di scialpinismo, Lunger ha iniziato l’attività atletico-alpina a 16 anni diventando il 23 maggio 2010 la donna più giovane ad aver raggiunto la vetta del Lhotse, una delle 14 montagne del mondo di altezza superiore agli 8mila metri. Il 26 luglio 2014 ha scalato anche il K2 e senza ossigeno, mentre nel 2016 ha dovuto rinunciare a salire sulla cima del Nanga Parbat quando ormai era a soli 70 metri dalla vetta.
Per diventare Tamara Lunger bisogna essere figli di sportivi? “Non necessariamente. Io ho avuto il vantaggio di avere un padre mountain biker di livello, che mi ha trasmesso l’amore per lo sport. Poi essere cresciuta in un piccolo paese in mezzo alle montagne, dai 12 anni addirittura in un rifugio della Valle Isarco, ha contribuito. Ma ci sono altri fattori che fanno scattare qualcosa dentro, per cui alla fine uno si dedica totalmente a un’attività, che può essere anche sportiva. Uno di questi, com’è nel mio caso, può essere una delusione d’amore. Comunque, prima di dedicarmi all’alpinismo, ho praticato atletica (due volte vicecampionessa italiana di categoria giovanile nel lancio del disco), corsa, scialpinismo, di cui sono stata campionessa mondiale nel 2008. Poi il mio sogno è diventato quello di andare oltre gli 8mila metri. Nel 2009 ho partecipato a una spedizione alpinistica e l’anno dopo sono salita in cima al Lhotse. Ho proseguito con altre scalate e altre ancora ne farò perché andare in montagna dà sensazioni indescrivibili”.
Cosa ha provato quando è arrivata sul K2? “Prima ho pianto, poi ho festeggiato con tutti quelli che a mano a mano arrivavano in vetta. Sono stata in cima un’ora, il tempo di rendermi conto che nonostante l’enorme delusione d’amore patita valeva ancora la pena di vivere”.
Invece sul Nanga Parbat si è fermata a 70 metri dalla vetta… “Stavo bene di testa, nonostante l’altitudine, ma non stavo bene di fisico. In questi casi bisogna avere il coraggio di rinunciare. Poi in discesa sono scivolata per 200 metri su un ghiacciaio senza essere vista dai miei tre compagni di cordata. Avrei dovuto tornare al campo 4 ed era quasi buio: credevo che sarei morta e mi chiedevo solo se avrei sofferto. Invece a un certo punto, nonostante i danni a due tendini delle braccia e a due legamenti delle gambe, ho trovato le forze per tornare al campo 4. Ho comunque trascorso una notte senza sapere se sarei sopravvissuta. Piangevo di nascosto per non pesare sui compagni. Tornata a casa mi sono sentita molto più viva, pur se distrutta fisicamente”.
Tornerà sul Nanga Parbat? “No. Ogni esperienza è unica. Ci sono tante altre montagne…”.
A portarla sul Nanga Parbat è stato l’alpinista Simone Moro: come l’ha conosciuto? “Sua moglie era la mia insegnante di educazione fisica alla scuola media. Quando l’ho invitata alla mia festa per la maturità è venuto anche lui e mi ha spronato ad andare in montagna assieme un giorno. Trascorsi 4 anni gli ho chiesto: ‘Allora, quando mi porti con te?’ e lui mi ha portata subito. Quel giorno me lo ricorderò per sempre, continuavo a urlare, ero completamente fuori di testa”.
Ma tra scialpinismo e alpinismo è riuscita a vivere gli anni giovanili come le altre ragazze? “Pochi giorni nella mia vita sono stata una ragazza come le altre, perchè nella mia vita ancora adesso c’è spazio quasi solo per lo sport. Sono cresciuta in un paese di 500 abitanti, San Valentino in Campo, dove c’era solo un ostello ma non una discoteca. Ultimamente ho dovuto anche dire di no a diversi inviti come quello di stasera perché altrimenti sono sempre in giro e non mi alleno”.
L’alpinismo per le donne è più difficile solo per una questione di struttura fisica? “Anche perché a noi vengono certe cose ciclicamente. E a me vengono sempre quando sono in cima!”.
Qual è la sua montagna preferita? “Non è importante dove e quanto alta sia, ma che non ci siano troppe persone…”.
Ha paura della morte? “Chi va in montagna è consapevole che può morire. Per noi europei la morte è una tragedia, per altri popoli è una cosa normale. Per me la morte non è un nemico. Non so cosa ci sia dopo, ma credo che prima o poi da lassù guarderemo in giù. Io vorrei morire in montagna”.
Cosa ha in programma prossimamente? “Adesso devo risolvere un problema alle ginocchia. A settembre forse mi unirò a una spedizione. In futuro mi piacerebbe fare una traversata delle Alpi di scialpinismo, come fece Walter Bonatti, con mio papà”.
Tamara Lunger coltiva qualche hobby? “Mi piace lavorare a uncinetto… Sapete che mestiere volevo fare? La macellaia…”. Risate. Davvero una donna originale.
Per conoscerla meglio è in libreria “Io, gli Ottomila e la felicità”, scritto con Francesco Casolo, costretto a trscorrere tre giorni con lei in alta montagna, affrontando ferrate e dormendo in sacco a pelo.