Solidarietà, l’Africa chiama la Brianza: ecco la storia di Bruna Sironi

27 settembre 2017 | 00:00
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Solidarietà, l’Africa chiama la Brianza: ecco la storia di Bruna Sironi

Bruna Sironi è nata a Monticello Brianza, dove ha ancora tutti i parenti. Da quasi 4 decenni, però, frequenta l’Africa, dove si occupa di cooperazione e solidarietà.

Ha fatto l’insegnante e l’attivista sindacale per tanti anni. Ma sempre, per riprendere il titolo di un celebre film del 2000 con Kim Basinger, sognando l’Africa. E, così, Bruna Sironi, dopo aver lavorato per la cooperazione italiana ed internazionale in Eritrea, Sudan e Sud Sudan, dal 2014 vive in Kenya, proprio come la protagonista della pellicola cinematografica tratta dal romanzo autobiografico della scrittrice italiana Kuki Gallamann.

A Nairobi, una volta andata in pensione, ha preso casa. Con due obiettivi fondamentali: fare informazione basata su fonti locali e supportare le organizzazioni del posto impegnate in questo lembo di Africa. Ma le radici di Bruna, che è stata una delle colonne storiche della Ong Manitese, sono in Brianza. E’ a Monticello, infatti, che è nata e ha trascorso i primi anni di vita. Poi la sua famiglia si è trasferita a Milano per lavoro. Ma in Brianza ci sono ancora tutti i parenti della Sironi. Ed è stato proprio la sua terra d’origine, a cui è rimasta molto legata, che nel 2011 le ha dato il premio Fumagalli – Cazzaniga per la sua attività a favore della pace e della cooperazione tra i popoli.

La storia di Bruna, 66 anni, dimostra come la solidarietà possa abbattere ostacoli, colmare chilometri e rendere più vicina anche la ricca Brianza all’Africa più povera e bisognosa del rispetto dei diritti umani, politici e civili.

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Bruna, frequenti l’Africa da quasi 4 decenni per progetti di cooperazione e vivi a Nairobi in Kenya dal 2014. Le tue origini, però, sono a Monticello Brianza. Com’è il tuo rapporto con il nostro territorio?

Sono nata a Monticello. La mia famiglia si è trasferita a Milano, dove mio padre lavorava, quando ero ancora molto piccola. Tutti i miei parenti, però, sono ancora in Brianza, tra Monticello, Casatenovo, Besana e altri paesi nelle vicinanze. Con loro, e con il territorio brianteo, c’è comunque sempre stato e c’è ancora un forte legame.

La Brianza ti ha anche dato un riconoscimento per la tua attività nel mondo della cooperazione e della solidarietà. Di cosa si tratta?

Nel 2011 il Comitato per la pace di Lecco mi ha assegnato il premio Fumagalli-Cazzaniga, che mi è stato consegnato a Casatenovo. E’ stato un momento emozionante per due motivi: perché ricevevo il premio praticamente nel paese dove sono nata e perché è intitolato a Graziella Fumagalli, uccisa in Somalia, una persona che aveva lavorato per Mani Tese in Guinea Bissau e conoscevo davvero bene. Il premio Fumagalli-Cazzaniga è andato ad aggiungersi alla nomina a Cavaliere della stella della solidarietà, che ho ricevuto nel 2005 dall’allora Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, per il lavoro che ho fatto per l’Eritrea e gli eritrei. Anche questa è stata una grande soddisfazione per me.

Come e quando è iniziato il tuo rapporto con l’Africa?

Scherzando, dico che sono stata influenzata da un libretto per bambini che mi aveva regalato, quando ancora ero piccolissima, uno zio carissimo, di Como, padrino di battesimo. Era la storia di un bambino africano … di cui ricordo ancora qualche disegno e una parte di filastrocca che illustrava la sua vita in un villaggio nella savana! L’Africa mi ha sempre incuriosita e in parecchie occasioni, anche da studente, ho approfondito diversi aspetti della cultura e delle relazioni politiche ed economiche con i paesi occidentali.

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Quando hai cominciato ad occupartene in modo serio e continuativo?

E’ successo alla fine degli anni settanta, come insegnante ed attivista sindacale, poi come consigliera del consiglio di zona 4 di Milano. Erano gli anni in cui le comunità straniere e di rifugiati cominciavano ad insediarsi in modo visibile in Italia. I bambini dovevano essere inseriti a scuola, gli adulti dovevano imparare l’italiano, avevano diritto alla casa, ad accedere al servizio sanitario, a godere dei diritti garantiti ai lavoratori. Tra le varie comunità la più numerosa era quella eritrea. In quegli anni c’era in Eritrea una guerra di liberazione dall’Etiopia ben poco conosciuta e ostacolata a livello internazionale. Così sono entrata in contatto con il movimento di liberazione e con le sue organizzazioni popolari presenti nella comunità.

Quando è stata la tua prima volta in Africa?

Nel gennaio del 1983, ero inviata dalla Federazione sindacale unitaria di Milano al congresso dei lavoratori eritrei nelle zone liberate dal Fronte Popolare di Liberazione dell’Eritrea. Al ritorno ho formato un comitato di solidarietà nell’ambito della federazione unitaria di Milano e poi ho coordinato i comitati di solidarietà in Italia. Ho seguito da vicino la lotta di liberazione eritrea fino all’indipendenza. Intanto per conto di Mani Tese mi sono occupata di tre campagne nazionali di informazione e advocacy, una riguardante l’Eritrea, l’altra il Sudan e la terza l’Africa in generale.

Ad un certo della tua vita, l’Africa, da meta di frequenti viaggi, è diventata il posto in cui hai scelto di vivere. Come è successo?

Nel 2000 In Eritrea, di nuovo in guerra con l’Etiopia, c’era una situazione molto difficile, con circa mezzo milione di sfollati in campi privi di tutto. Mani Tese era tra le pochissime Ong italiane conosciute nel paese, ma allora non aveva espatriati e uffici all’estero. La cooperazione italiana ci chiedeva di gestire il rifornimento idrico in uno di questi campi. Sono partita alla fine di giugno del 2000, dopo aver chiuso l’anno scolastico, per facilitare l’inizio del progetto, pensando di tornare dopo due mesi. Invece mi sono fermata perché era necessario, sia per il progetto che ci era stato affidato, sia perché era il momento in cui la cooperazione internazionale stava cambiando ed era opportuno stare sul campo per capire come per Mani Tese sarebbe stato meglio agire nel futuro. A quel punto l’Eritrea è diventato il mio paese di elezione. Poi il governo ha reso molto difficile il lavoro di cooperazione. A me, come a molti altri, non è stato rinnovato il visto e così ho dovuto lasciare l’Eritrea nel 2005. Da allora ho aperto le operazioni di Mani Tese anche in Sudan, in Sud Sudan e in Kenya.

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Oggi vivi a Nairobi in Kenya. Perché hai preso questa decisione?

Quando sono andata in pensione nell’aprile del 2014, ho pensato che avevo ancora energie ed interessi da spendere in Africa. Perciò ho deciso di fermarmi a Nairobi con due obiettivi: fare informazione basata su fonti locali e supportare organizzazioni sul posto con le competenze e le conoscenze che avevo maturato in quasi 15 anni di lavoro nella cooperazione internazionale.

Di cosa ti occupi?

Ora scrivo stabilmente per il mensile e il sito di Nigrizia, la rivista sull’Africa dei padri comboniani. Poi collaboro con un paio di Ong locali per le quali preparo progetti per donatori diversi.

E il tuo rapporto con l’Italia come è diventato?

In Italia vengo di corsa un paio di volte all’anno perché ormai gli impegni qui sono parecchi e pressanti.