Suicidio nel carcere di Monza: è il quarto da marzo

Un uomo, 30 anni di nazionalità italiana, detenuto per reati di droga, si è tolto la vita mentre era nella sezione infermeria.
Ieri, giovedì 14 settembre, un detenuto per reati di droga si è impiccato nella sezione infermeria del Carcere di Monza. L’allarme è scattato alle 18.42. Nonostante il tempestivo intervento della Polizia penitenziaria, non c’è stato nulla da fare. Non si conoscono ancora le ragioni che hanno spinto l’uomo, 30 anni di nazionalità italiana, a compiere l’estremo gesto.
È il secondo suicidio nell’arco di una settimana e il quarto da marzo all’interno della struttura. “Contiamo un altro detenuto suicida in carcere a sancire il fallimento delle politiche penitenziarie del Governo Gentiloni, di quelli che l’hanno preceduto e della gestione di Santi Consolo alla guida dell’Amministrazione Penitenziaria – manifesta con queste parole il suo rammarico Donato Capece, Segretario Generale del SAPPE (il principale sindacato della Polizia Penitenziaria ndr.) – Più di quaranta suicidi in meno di nove mesi nelle carceri italiane è un dato mai registrato prima, dal dopoguerra ad oggi: un triste primato.”
La situazione del carcere di Monza è problematica e fotografa un trend generale del sistema carcerario italiano. Secondo i dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 luglio 2017, il sito detentivo monzese risulta sovraffollato con 627 carcerati a fronte di 403 posti disponibili. Questa situazione è aggravata dalla mancanza di effettivi tra le fila della Polizia Penitenziaria che con 45mila effettivi per controllare tutti i 205 siti detentivi della penisola. E le difficoltà potranno solo aumentare poiché l’entrata in vigore della legge Madia prevede un taglio di 5mila unità.
“Un detenuto che muore o che, peggio, si toglie la vita in carcere è una sconfitta dello Stato e dell’intera comunità. – prosegue Capece – Il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere.”