Malattie del fegato: nanoparticelle 1°premio dell’Open Accelerator di Zambon Group

21 dicembre 2017 | 12:19
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Malattie del fegato: nanoparticelle 1°premio dell’Open Accelerator di Zambon Group

Le nanoparticelle, che serviranno a curare le malattie autoimmuni del fegato, hanno vinto la seconda edizione di Open Accelerator.

Immaginate delle nanoparticelle smart e green e caricatele con un farmaco: lo porteranno dove serve, ne rilasceranno quanto serve, e non avranno effetti collaterali, perché sono biodegradabili e biocompatibili e non hanno residui.

Sono le nanoparticelle che serviranno a curare le malattie autoimmuni del fegato (ad esempio, l’epatite autoimmune e la colangite biliare primitiva) e hanno vinto la seconda edizione di Open Accelerator, il fast-track accelerator program di Zambon Group.

«La nostra innovazione potrà cambiare la vita di tutte le persone che soffrono di malattie autoimmuni ed infiammatorie del fegato e che con le cure di oggi sono costrette ad assumere alti dosaggi di farmaci per riuscire a controllare la malattia, ma a costo di molti ed importanti effetti collaterali» dicono i due scienziati che hanno avuto l’idea e l’hanno realizzata.

Il progetto si inserisce in una collaborazione pluriennale tra Margherita Morpurgo (chimico- farmaceutica esperta di drug delivery dell’Università di Padova), Pietro Invernizzi (direttore dell’Unità operativa complessa di gastroenterologia della ASST di Monza, esperto internazionale di patologie autoimmuni del fegato dell’Università di Milano-Bicocca) e il team del Mario Negri di Milano coordinato dal nanobiologo Paolo Bigini. Nel team padovano che ha contribuito al successo, ci sono anche Elisabetta Casarin per la parte tecnologica e Chiara Tamburini, Elena Pigato, Davide Merlin e Paolo Gubitta per la parte manageriale.

Il team lombardo-veneto è stato scelto tra i 17 gruppi italiani e stranieri che per tutti i fine settimana da metà settembre a metà dicembre hanno partecipato al programma di accelerazione, svoltosi a Bresso, tenuto in lingua inglese, anche con docenti internazionali e con il coordinamento di Deloitte.

Margherita Morpurgo, tra i leader del team (e che all’Università di Padova è anche la delegata del Rettore per il trasferimento tecnologico nelle Scienze della Vita) sottolinea: «Fonderemo un’impresa e useremo queste risorse per approfondire gli studi in vivo e arrivare a dimostrare l’efficacia in più modelli di malattia. Serviranno alcuni anni e ai 100.000 euro del premio dovranno aggiungersi altri finanziamenti significativi. La nostra tecnologia migliorerà la vita dei pazienti e anche il bilancio della spesa sanitaria».

Pietro Invernizzi, il clinico del gruppo, aggiunge: “Oltre allo sviluppo in laboratorio utilizzando modelli di malattie autoimmuni del fegato cui lavoriamo da anni, non vedo l’ora di poter iniziare a provare questo nuovo approccio terapeutico nei pazienti. Vengono da noi all’Ospedale San Gerardo di Monza da tutta Italia cercando nuove e migliori terapie e purtroppo spesso non abbiamo molto da offrire”.

Nel team padovano, anche Paolo Gubitta, vicedirettore del Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali: «Questo successo ci dice qualche cosa che va oltre l’innovazione tecnologica. Ci dice che la ricerca scientifica “non ha confini” e che le collaborazioni interuniversitarie sono indispensabili. Ci dice, in linea con la strategia del Rettore Rizzuto, che “la contaminazione interdisciplinare” è la chiave del successo. E ci dice che bisogna dare opportunità alle giovani generazioni: Chiara Tamburini ed Elena Pigato sono ancora due 25enni laureande in Business Administration, ma nessuno se n’è accorto vedendole lavorare a questo progetto».