Leu a Desio contro la mafia tax: “Siamo gli unici a parlarne”

il 12 febbraio la senatrice Ricchiuti, insieme ai candidati Cavalli e Varese, al segretario Cgil Pulici e ai giornalisti Portanova e Borrometi ha rivendicato l’impegno di Leu contro l’illegalità.
Di una sola cosa non si parla, in questa campagna elettorale: di mafia. Lo ha denunciato Don Luigi Ciotti in apertura a Contromafie, il convegno organizzato a Roma da Libera, accusando la politica italiana di evitare l’argomento perché troppo scomodo e difficile, troppo poco adatto a imbastire le solite grandiose promesse elettorali. Lunedì 12 febbraio, a Desio, Liberi e Uguali ha provato a smentirlo con l’incontro “Aboliamo la mafia tax”, la tassa che tutti noi paghiamo alle mafie e all’illegalità ogni volta che rinunciamo a combatterle. Ospite d’onore, la senatrice Lucrezia Ricchiuti, ex Pd ora candidata al Senato per Leu. Partita proprio dal consiglio comunale di Desio per denunciare il malaffare e i legami tra politici locali e ‘ndrangheta (in seguito confermati dall’inchiesta Infinito, ndr), poi approdata in commissione antimafia, oggi Ricchiuti non ha dubbi: «Continuerò a occuparmi di mafie anche se non sarò rieletta: questo tema deve stare al centro della battaglia politica -. E promette -: Leu sarà al fianco di chi combatte le mafie». Un impegno non facile: le mafie sono dappertutto, pervadono il nostro tessuto economico investendo in ogni settore (Ricchiuti parla di un giro d’affari di 150 miliardi di fatturato), ma si tende a non parlarne. «Per la politica le mafie sono un problema solo a parole – accusa la senatrice – e preferisce non occuparsene veramente. Come potrebbe, quando i mafiosi siedono in Parlamento?!».
«In fondo Don Ciotti ha ragione, non siamo riusciti a tenere la mafia tra gli argomenti più importanti: anzi, preoccupano di più i disperati dei mafiosi – ha ammesso Giulio Cavalli, attore e scrittore candidato per Leu al collegio plurinominale Monza e Brianza -. Questo governo ha parlato pochissimo di mafia: men che meno in campagna elettorale, perché la battaglia alla mafia costa, e dire una cosa del genere è altamente impopolare. La politica ha invece una grande responsabilità culturale: far diventare il tema dell’antimafia ancora una volta “pop”». Magari anche smettendo di ammirare quella «spregiudicatezza imprenditoriale» che, come dice Cavalli «qui in Lombardia sembra necessaria per fare affari, quando invece dovremmo ammettere che spingere all’estremo l’imprenditoria ha creato un modello economico che premia l’attività criminale, perché non ha più limiti etici o morali».
E proprio lo stretto legame tra impresa, corruzione e malaffare è stato il nodo principale affrontato a Desio: un aspetto meno visibile e forse meno sensazionale delle mafie, ma non per questo meno pericoloso. E molto attuale: basti pensare alla recente inchiesta sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’amministrazione del comune di Seregno. «In Italia a partire dagli anni 90 le mafie hanno cominciato a mimetizzarsi nel tessuto economico, facendo impresa e aprendo società – ha riassunto il giornalista Mario Portanova -. E se a prima vista può sembrare una cosa positiva, le indagini raccontano di centinaia di commercianti e lavoratori che pagano la loro “mafia tax” perché costretti a fare affari in un mondo gestito e dominato dalla mafia». Lo spiega bene anche il criminologo Federico Varese, autore del saggio “Vita di mafia” e candidato al Senato nella circoscrizione Europa di Leu, che lunedì era in collegamento da Oxford: «Non mi rassegno a vedere che nel mio paese la corruzione è diffusissima – ha dichiarato -. La mafia controlla certi mercati, come quello delle discariche, spesso legati alla politica, alterando le economie di mercato. La lotta contro le mafie – continua – è la lotta per un sistema statale forte».
A indagare con attenzione, il marcio dell’illegalità viene subito a galla. Lo ha raccontato nelle sue inchieste il giornalista Paolo Borrometi, che per questo da 4 anni vive sotto scorta: «Le mafie esercitano al nord un controllo di tipo economico – ha affermato lunedì scorso, dicendo di sentirsi finalmente “a casa” insieme agli altri relatori -. Nessuno ne parla perché è un tema scomodo: è più facile raccontarci che i reati peggiori li compiono gli immigrati – accusa -. Invece, se riuscissimo a sconfiggere evasione, mafie e corruzione, recupereremmo più di 330 miliardi l’anno (Borrometi cita i dati diffusi da Mattarella in base a uno studio di Confindustria di fine 2015, secondo il quale ogni anno l’evasione ci toglie 122 miliardi, la corruzione 60, le mafie 151, ndr ): è il bilancio degli Usa, della Cina! E sono soldi di tutti, tolti ai servizi e alla possibilità di un futuro e di un presente diverso». Anche perché la mafia crea ricchezza solo per se stessa, costringendo i lavoratori, come ben racconta Borrometi, ad accettare compromessi non solo degradanti, ma anche pericolosi per la propria sicurezza: un tema ripreso anche dal segretario Cgil Simone Pulici. «La mafia può essere anche un datore di lavoro – spiega -. Come sindacato vorremmo fare di più, essere non solo commentatori, ma antenne di legalità. Penso ai whistleblower: perché le organizzazioni sindacali non possono aiutare i lavoratori in questi percorsi? Mi sono chiesto spesso – continua – se ci fosse un valore condiviso in questo nostro territorio: alla fine mi sono risposto che in Brianza questo valore esiste, ed è il lavoro. È dal lavoro che dobbiamo partire per rendere i lavori protagonisti, senza rassegnarci al falso mito per cui la mafia porta ricchezza».