La storia dell’hockey (anche monzese) rivive in un nuovo libro

Un nuovo libro che parla di hockey su pista e dell’importanza che ha avuto, e ha ancora, questo sport nella città di Monza. Lo ha scritto Paolo Virdi, collaboratore de La Gazzetta dello Sport.
Un libro che parla di hockey su pista e dell’importanza che ha avuto, e ha ancora, questo sport nella città di Monza. Lo ha scritto Paolo Virdi, collaboratore de La Gazzetta dello Sport, che lo ha presentato ieri sera in Sala Maddalena.
Il libro s’intitola “Hockey pista, un grande romanzo”, e la sua scrittura è stata incoraggiata e aiutata per la ricerca documentale da Alberto Ambrogi, giornalista della Rai, e dalla monzese Marika Kullmann, consigliera nazionale della Federazione italiana sport rotellistici, entrambi presenti in sala. Simone Draghetti di Linee Infinite Edizioni è l’editore che ha creduto “nell’aspetto socioculturale del libro”.
In effetti non si tratta di un volume zeppo di risultati, classifiche e note a margine, ma di un vero e proprio romanzo che narra l’epopea dell’hockey su pista attraverso cinque personaggi, fornendo una visione storica della disciplina. Due capitoli di quest’opera riguardano direttamente Monza, roccaforte nazionale della disciplina. In un capitolo si racconta la vita di Gustavo Luigi Kullmann, padre di Marika, che fu uno dei soci fondatori dell’Hockey Club Skating Monza il 7 febbraio del 1933 e che successivamente divenne un pilastro della squadra biancorossa e della Nazionale italiana. Un altro capitolo è dedicato al fenomeno di Breganze, piccolo paese veneto che produsse molti campioni tra cui Franco Girardelli, plurititolato giocatore del Sodalizio Hockeystico Roller Monza e ora dirigente della più importante delle due attuali società cittadine.
“Questo libro – ha spiegato Virdi – nasce con l’obiettivo di riportare alla luce una storia gloriosa, nata circa un secolo fa, inserendo l’hockey a rotelle in un contesto storico e sociale, attraverso le vicissitudini di cinque personaggi. Io avevo la curiosità di approfondire la storia dell’hockey su pista antecedente gli ‘anni d’oro’, cioè gli anni ‘80. Per questo motivo i capitoli trattano la storia dal 1922 al 1979, quando ancora si giocava all’aperto e tutto era più romantico. Si parte allora da Pola, laboriosa cittadina dell’Istria, in Croazia, che nel 1922 conquista il primo scudetto perché ancora italiana, per giungere, alla fine degli anni ’70, a Breganze, un piccolo paese della provincia vicentina. Scorrendo le pagine si può compiere un viaggio attraverso un’immaginaria linea del tempo. È possibile rivivere l’atmosfera degli anni ’20, attraverso il dramma di Augusto Quarantotto, allenatore della prima squadra campione d’Italia, morto fucilato. Tra le pagine del romanzo vengono messe in luce le manipolazioni dell’hockey da parte dei nazisti a fini propagandistici. A Stoccarda nel 1936 si tiene il primo Campionato del mondo di hockey, che viene utilizzato come ultimo banco di prova per le imminenti Olimpiadi di Berlino. In un palazzetto gremito da 12mila spettatori, a metà secondo tempo il match si ferma per l’ingresso di Adolf Hitler, desideroso di verificare il funzionamento della macchina organizzativa del Terzo Reich. Due anni più tardi l’hockey è inconsapevole vittima di un ‘gioco di prestigio nazista’, quando sempre a Stoccarda si affrontano Germania, Italia, Francia e Inghilterra nella Coppa della Pace e contemporaneamente va in atto la terribile ‘notte dei cristalli’ contro gli ebrei. Storie narrate tramite l’esperienza diretta di Kullmann, che rivela anche aneddoti simpatici, come nel divertente siparietto con Umberto di Savoia. Attraverso il racconto della Triestina di Enzo Mari, detto ‘Belfagor’ per via della maschera che indossava in pista, vengono toccati momenti di forti emozioni, come l’omicidio di Pierino Addobbati, suo fraterno amico, avvenuto in una Trieste che proclamava a gran voce la propria italianità in un momento di grande tensione sociale. L’ultima parte del romanzo si addentra negli anni ’70, dove incontriamo l’‘Olandese volante’, al secolo Robert Olthoff, il primo straniero a calcare le piste italiane in una Novara impazzita per l’hockey. L’ultimo racconto parte da un cappellano, Don Piero Carpenedo, capace di portare a vincere 2 scudetti e alla ribalta internazionale il Laverda Breganze. Dal piccolo paese del vicentino scaturisce la storia di Girardelli, che parte dall’oratorio e giunge a laurearsi campione del mondo. Il libro l’ho presentato solo a Breganze, a Novara, a Trieste e oggi a Monza, ma l’editore sta lavorando per presentarlo anche a Pola. A Trieste non solo era presente Mari, ma anche Romano Cataletto (93 anni e mezzo, portiere dell’Italia campione del mondo a Ginevra nel 1953, unico superstite di quella Nazionale, ndr) e un centinaio di altre persone. A Monza sono tra amici anche se sono lodigiano! (la rivalità tra le due tifoserie è grandissima, ndr). Su La Gazzetta dello sport ho scritto del ritorno nella massima serie di questa importantissima piazza e continuo a seguire da vicino le sue vicende sportive. Leggere tutti i documenti lasciati da Kullmann è stato emozionante. È stato un grandissimo personaggio, che ha giocato a hockey tra il 1933 e il 1955 e tra l’altro ha inventato il tiro accompagnato. Col Monza ha vinto il Torneo delle nazioni del 1946, che era la Coppa dei campioni dell’epoca”.
La figlia ha ricordato di “quando Juan Antonio Samaranch, dirigente del Barcellona prima di diventare presidente del Comitato olimpico internazionale, chiese a mio padre di allenare la blasonata squadra catalana. Papà dovette rinunciare per non perdere il suo lavoro, ma mantenne sempre i contatti con l’importante dirigente spagnolo”. E di suo padre che raccontava che “l’Inghilterra giocava in pantaloni e camicia bianca” e di quella volta che “contro il Portogallo una pallina gli ruppe lo zigomo e a sorpresa, tempo dopo, gli arrivarono a casa 68,71 dollari raccolti tramite colletta dai giocatori lusitani per contribuire al pagamento delle cure”. La figlia ha concluso dichiarando di essere “molto orgogliosa di mio padre, ma anche di mia madre e di mio zio, che hanno fatto tutti parte del mondo della rotellistica”. Ha anche annunciato l’intenzione della Fisr di realizzare un museo nazionale degli sport rotellistici.
Il sindaco Dario Allevi e l’assessore allo Sport, Andrea Arbizzoni, si sono dati agli sfottò reciproci perché negli anni ’80 erano su gradinate diverse, il primo tra gli ultras del Monza e il secondo tra quelli del Roller Monza. “Comincio a vivere di ricordi – ha esordito Allevi – di quando Monza era una capitale dell’hockey, che a noi ragazzi faceva vivere momenti emozionanti. Da queste parti c’era anche l’altra squadra, ma il Roller, per noi cuori biancorossi anche nel calcio, era di Brugherio e poi di Sesto San Giovanni perché giocava lì… Mi è spiaciuto molto per il vuoto che c’è stato per anni in città. Ora sono molto contento che l’hockey, come il calcio, stia dando importanti segnali di risveglio, ricreando il clima di appartenenza alla città. Come Amministrazione comunale ci stiamo impegnando al massimo perché si riesca finalmente a trovare un’area idonea per realizzare un palazzetto per gli sport rotellistici in modo che la Serie A1 di hockey torni in città da Biassono (è dal 1983 che le squadre di Serie A monzesi giocano fuori Comune, ndr)”. Arbizzoni, dopo aver ricordato ad Allevi che “la finale scudetto del 1989 l’ha vinta il Roller in finale col Monza” e che da quando l’hockey si gioca al coperto il Roller ha vinto 4 scudetti contro gli 0 del Monza, ha lamentato che “il movimento dell’hockey ha perso una grande occasione per il rilancio della disciplina nel 2006, quando Monza ha ospitato il Campionato europeo al palazzetto dello sport. L’hockey sta incontrando difficoltà, anche un po’ a causa del calcio ‘pigliatutto’. Però non bisogna vivere di nostalgia. Deve esserci la capacità di immaginare il futuro, magari in una casa della rotellistica. Tengo a sottolineare che rotellismo a Monza non è solo hockey, pattinaggio, corsa, freestyle, ma anche hockey in carrozzina: pure quest’anno gli Sharks hanno sfiorato la conquista dello scudetto”.