Cappellificio Vimercati, Confimi Monza e Brianza in visita tra storia ed imprenditoria

L’associazione imprenditoriale ha organizzato una visita guidata alla scoperta dell’azienda a conduzione familiare, unico esempio rimasto di un passato industriale glorioso per il capoluogo della Brianza.
C’era una volta, nel Nord Italia, una città che era la capitale del cappello. Qui se ne producevano milioni ogni anno, poi venduti nel mondo intero. Il tutto grazie alla laboriosità di decine di aziende e di migliaia di persone. Anche se questo sembra l’inizio di una favola, si sta parlando di fatti assolutamente reali, accaduti meno di un secolo fa. E la città in questione, molti di voi l’avranno capito ormai, è proprio Monza. Dove oggi esiste un solo cappellificio, “Vimercati”. Un’azienda a gestione familiare, nata nel 1953 e giunta alla terza generazione, a cui spetta anche il compito di difendere e tramandare la tradizione di un settore produttivo molto importante per la storia di Monza.
Un ruolo, anche e, forse, soprattutto culturale, che è stato compreso in pieno da Confimi Industria Monza e Brianza (Confederazione dell’industria manifatturiera e dell’impresa privata). Non a caso l’associazione imprenditoriale, che a livello nazionale è costituita da 30mila aziende iscritte, capaci di impiegare circa 420 mila addetti e generare un fatturato aggregato di circa 72 miliardi di euro annui, ha organizzato una visita guidata in via Macallè, sede del Cappellificio “Vimercati”.
La spinta è arrivata dal Gruppo Giovani Imprenditori di Confimi Monza e Brianza, sostenuto dai vertici dell’associazione, con in testa il presidente, Nicola Caloni e la sua vice, Gabriella Meroni. Con l’obiettivo, come ci spiega la responsabile Rachele Fossati, terza generazione della famiglia alla guida della Wilbra di Desio, di iniziare un percorso alla riscoperta del profondo legame, a volte sconosciuto o dimenticato, tra aziende e territorio.
La storia e il presente del cappellificio “Vimercati”, azienda medaglia d’oro per l’esportazione, raccontano della volontà caparbia di portare la sapienza e le competenze di un mondo antico nella competizione dei mercati economici moderni. Una sfida, condotta oggi da Giuseppe e Marco, figli di Gabriele, uno dei due fratelli fondatori del marchio monzese. E da Roberto, Fabrizio ed Elisa, nipoti dei fondatori. Una sfida combattuta con “armi” particolari.
Macchinari, dalle presse alle tosatrici e alle stampatrici, che hanno anche più di cento anni. E oggi vengono tenuti in attività con la speranza che non si rompano. Perché non vengono più prodotti in commercio e sarebbe un’impresa trovare i pezzi di ricambio. Queste macchine, alimentate in gran parte a vapore, sono la memoria tangibile di un passato ormai quasi del tutto scomparso.
“A Monza, nel 1911, c’erano 60 cappellifici, tra cui grandi nomi come Cambiaghi, Meroni, Carozzi, poi rinominato Cappellificio Monzese e Valera&Ricci, con 5000 addetti e una grande esportazione all’estero – spiega la storica dell’arte Stefania Castiglione – ma in città la lavorazione del cappello di lana risale addirittura al 1200 con l’ordine laico degli Umiliati, poi nel Seicento la città seppe risollevarsi prima degli altri dalla peste anche grazie alla lavorazione dei cappelli di feltro e, dopo la rivoluzione industriale, arrivò ad avere committenze per l’esercito italiano e perfino per quello napoleonico”.
La cura e la passione di epoche lontane sono arrivate, in qualche modo, fino ad oggi. E consentono alla famiglia Vimercati di trasformare il feltro, fatto di pelo di coniglio, cashmere o castoro proveniente dal Portogallo, in cappelli artigianali forti della qualità “made in Italy”.
Stare a pieno diritto su un mercato di nicchia, che ha dovuto subire i cambiamenti della moda e dei costumi sociali, non può cancellare i ricordi di quello che è stato fino a pochi decenni fa. “Fino a 30 o 40 anni fa avevamo 17 operai e 9 collaboratrici esterni – afferma Marco Vimercati – allora producevamo circa 80mila cappelli all’anno, mentre oggi siamo soltanto in 7 operai e siamo scesi a 20mila copricapi all’anno”. Numeri più ridotti di un tempo, ma che hanno le carte in regola per poter crescere.
“La nostra attuale filosofia è di realizzare modelli che il cliente possa personalizzare nel colore, nella forma e negli accessori – spiega Fabrizio Vimercati – per questo ci stiamo sempre più orientando su cappelli meno rigidi, di diverso colore e qualità, non più fatti solo con acetato, ma anche con cupro, una fibra derivante dalla cellulosa, traspirante e leggera”. Proprio il cupro è stato il tramite per avviare una nuova collaborazione, nel tentativo di affermare sempre più il marchio monzese a livello territoriale e all’estero.
“Il nostro fornitore di Varese il prossimo 1 dicembre aprirà un negozio di abbigliamento e tessuti femminili a Milano e venderà anche i nostri prodotti – annuncia Fabrizio – siamo già presenti in altre cappellerie sparse per l’Italia e i copricapi, realizzati da noi a Monza per altri marchi, sono finiti un po’ in tutto il mondo”. Recentemente Vimercati è stata protagonista di iniziative anche nel capoluogo della Brianza.
E’ suo, infatti, il cappello, naturalmente rosso Ferrari, che, nell’ultima edizione del Gran Premio di Formula 1, ha celebrato dei 100 anni dalla nascita del pilota Alberto Ascari. Inoltre l’azienda di via Macallè è tra i principali promotori della mostra “Chapeau!” (leggi l’articolo), visitabile fino al 6 gennaio ai Musei civici di Monza (qui le info).
Se si guarda al futuro per adeguarsi a nuovi contesti socio-economici, i metodi artigianali di lavoro nel settore del cappello non sono cambiati. “Il nostro ciclo di produzione prevede sempre dieci fasi che durano complessivamente circa 20 giorni – spiega Elisa Vimercati – inoltre alcune operazioni vengono compiute ancora rigorosamente a mano, come quella di applicare il cordone al cappello tirolese”. Molto tradizionali sono anche i clienti principali di Vimercati.
“Gli israeliani, ai quali vendiamo circa 8mila cappelli all’anno, sono costretti, per motivi religiosi, ad indossare per tutta la giornata questo capo, obbligatoriamente nero, sin dai 10 anni di età” afferma Elisa.