Incontro con lo psicologo. Dal trauma alla rappresentazione per darci una ragione di quanto è accaduto

23 maggio 2020 | 00:00
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Incontro con lo psicologo. Dal trauma alla rappresentazione per darci una ragione di quanto è accaduto

Parola a Maria Concetta De Giacomo, Psicologa e Psicosomatologa di Urgenza Psicologica Monza.

Fra incredulità e paura, facciamo molta fatica a immaginare come sarà il nostro futuro. Quali abitudini riprenderanno come prima, e quali saranno irrimediabilmente modificate? E se pensiamo che i cambiamenti in essere avvengono su scala mondiale, che effetti potranno verificarsi a cascata?

Se è praticamente impossibile prevedere tutto questo, quello che possiamo fare in questo momento è iniziare a comprendere che cosa è accaduto al nostro interno, passaggio inevitabile per arrivare a ipotizzare, se non che cosa accadrà, che cosa vorremmo che accadesse.

Un cambiamento così repentino nella propria vita, che non sappiamo quali effetti produrrà, è sicuramente assimilabile a un evento traumatico: stiamo affrontando quello che in psicologia viene chiamato DPTS, Disturbo Post-Traumatico da Stress. E secondo l’ormai famosissimo libro di Bessel Van derKolk, in caso di evento traumatico, è il corpo che accusa il colpo.

Ma che cosa significa questo, precisamente?

Per prima cosa, possiamo dire che il trauma è, per definizione, qualcosa di non rappresentabile, un evento, o una serie prolungata di eventi, a cui la nostra mente non è in grado di dare un posto, a cui non riesce ad attribuire un significato. E proprio perché la mente non riesce a in-scrivere un certo avvenimento in una rappresentazione, nel corpo si accumulano una serie di emozioni e sensazioni, che il cervello fa fatica a percepire e a decodificare. Sicuramente ci sono delle persone che sono state colpite in maniera più forte da quest’ondata traumatica, in particolare chi si è trovato a fare esperienza diretta della morte e della malattia, o chi è rimasto improvvisamente senza lavoro. Ma in qualche modo il cambiamento inatteso ci ha riportato tutti a fare i conti con una dimensione di senso, a mettere in discussione ciò che davamo per scontato, a impattare con delle forze naturali che sono molto più potenti delle volontà coscienti dei singoli individui, e anche dei gruppi, facendoci sperimentare talvolta degli stati interni di particolare difficoltà.

Sicuramente in questo periodo i dispositivi tecnologici, dalla TV, ai social network, ai videogame, hanno costituito per tanti un’ancora di salvezza per mantenere un contatto, seppur parziale, col mondo, consentendo di rimanere aggiornati sulle notizie, di coltivare relazioni virtuali, di lavorare da remoto, di svolgere varie attività in collegamento con altri. Il mondo virtuale, però, sebbene ci abbia offerto sicuramente molti vantaggi in questa situazione, ci mantiene innegabilmente distanti dagli aspetti più consistenti del mondo reale, filtrandoli attraverso uno schermo, e deprivandoli di una serie di caratteristiche essenziali. Ben prima dell’avvento del Covid-19, la digitalizzazione aveva contribuito a consolidare notevolmente un processo avviato decenni prima dalla cultura del benessere, grazie al quale ci eravamo illusi che non fosse più necessario confrontarci con gli aspetti più precari dell’esistenza, che di essa fanno parte, ma con i quali avevamo già cominciato a perdere il contatto. E proprio grazie al consolidamento di un certo stile di vita, iniziato in seguito al boom economico del Dopoguerra, ci siamo trovati impreparati alla gestione emotiva di un evento tragico, perché la nostra mente, abituata a confrontarsi con altri livelli dello stare al mondo, soffre attualmente di una carenza di strumenti per rappresentare una catastrofe. Negli ultimi decenni, infatti, sono venuti meno una serie di sistemi simbolici, il che ci rende più suscettibili all’impatto con gli eventi traumatici.

Una dimensione a cui l’essere umano si è sempre appellato per la gestione degli eventi della vita è quella del sacro. Non si tratta necessariamente dell’avere una fede, di essere o meno credenti, quanto piuttosto di offrire alla mente la possibilità di attingere a una rappresentazione, di significare gli eventi della vita, per dare loro un posto nella propria mente. Se ci pensiamo un momento, forse ciò che ha causato maggiore sofferenza ai parenti delle vittime di Covid-19 è stata proprio l’impossibilità di dare loro un ultimo saluto e, soprattutto, di onorare la separazione estrema attraverso un funerale. Del resto, è proprio l’introduzione dei riti funebri nel Paleolitico uno degli elementi fondamentali che segna una netta separazione tra l’uomo e il mondo animale, perché testimonia la capacità di rappresentare una perdita, in particolare di una persona scomparsa. Anche l’arte è uno strumento fondamentale a questo scopo: il carme “Dei sepolcri” di Foscolo è emblematico del ruolo che essa riveste nel dare un posto alla memoria di chi non c’è più.

Si tratta di un argomento con il quale, se potessimo, eviteremmo volentieri di prendere contatto. Eppure, per superare una perdita, per fare ciò che gli psicologi chiamano “elaborazione del lutto”, è necessario innanzitutto prendere contatto con essa e con i vissuti che si generano al nostro interno, per poter ricominciare a vivere con una nuova energia. Questa espressione, però, non riguarda solamente la morte in sé, bensì, potenzialmente, tutto ciò che finisce e ricomincia, come nel caso di una separazione.

In culture forse ancora un pò lontane dalla nostra, le pratiche spirituali costituiscono ancora oggi dei mezzi importantissimi per rappresentare il cambiamento e per prepararsi ad affrontarlo. Nel buddhismo tibetano ad esempio, quella della costruzione e distruzione del mandala è la pratica per eccellenza per rappresentare la permanente impermanenza delle cose. Dopo aver impiegato giorni interi per costruire insieme un’opera d’arte complessissima, un enorme e meraviglioso mandala con polveri colorate, i monaci ne celebrano la distruzione attraverso una cerimonia pubblica molto emozionante, al termine della quale ogni partecipante riceve un sacchettino con un po’ della sua polvere, a testimoniare e ricordare alla mente che nulla dura in eterno.

Questa maniera di intendere la spiritualità è molto diverso, dunque, dall’affidarsi a una divinità perché risolva tutto: si tratta di pratiche che servono ad abituare la mente a coltivare la capacità di stare nelle difficoltà, ad allenare la pazienza, a rappresentare la mancanza, a coltivare relazioni sane condividendo attività complesse di gruppo, tutte qualità molto importanti per non farsi trovare impreparati nei momenti di difficoltà.

Tutte le pratiche spirituali hanno da sempre costituito in realtà un importantissimo strumento di significazione dei momenti di passaggio, non soltanto fra la vita e la morte, ma in generale di ciò che riguarda un cambiamento. In tal senso, la celebrazione di eventi significativi, sacri e non, è un’altra forma di rappresentazione del reale che in questo periodo di lockdown è venuta a mancare, influendo sul processo di articolazione del tempo.

Proviamo ad esempio a pensare al fatto che i bambini non avranno, molto probabilmente, una festa di fine anno scolastico, dato che non torneranno a scuola prima di settembre: se davvero sarà così, questo avrà verosimilmente sulla loro mente un effetto importante, soprattutto per quei bambini che si trovano a dover affrontare il transito da una scuola a un’altra, come nel caso del passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria. Cambieranno le maestre, i compagni di classe, si troveranno in un ambiente nuovo completamente impreparati, non saranno abituati a stare al banco, né saranno allenati a seguire le indicazioni della maestra per fare i compiti. Ma soprattutto, non avranno avuto dei momenti per significare il passaggio, per salutare i vecchi compagni prima di incontrare i nuovi, per rappresentare la separazione.

Finché non sarà possibile organizzare dei momenti d’incontro dal vivo, un’altra possibilità interessante, sia per i bambini sia per gli adulti, è quella di creare, ed eventualmente condividere online, qualcosa che rappresenti come ci sentiamo in questo momento, come un disegno, un dipinto, un video. Anche la scrittura, o la musica, possono essere un mezzo per esprimere le nostre emozioni, per dare un posto nella mente a ciò che altrimenti rimane bloccato nel corpo, influenzando i nostri stati d’animo senza che ce ne rendiamo conto. Se poi questo non dovesse essere sufficiente, possiamo certamente considerare anche la possibilità di farci aiutare, parlando con qualcuno che possa supportarci in questo processo.

Che cosa possiamo imparare allora da tutto questo? Sicuramente questo periodo di quarantena ci ha costretto a rifare i conti con la mancanza in varie forme: delle nostre abitudini, della possibilità di uscire e di andare al lavoro, dell’incontro con le persone, mancanze talvolta anche più gravi, purtroppo.

Trovare il modo di rappresentare le perdite che abbiamo dovuto affrontare, attingendo alle risorse che ci sono più consone, è senz’altro uno strumento importante per sostenerci nel processo di adattamento a questo periodo in maniera creativa, nel fare di necessità virtù. Sappiamo, infatti, che è proprio quando siamo nella mancanza che siamo più portati a pensare, a inventarci qualcosa di nuovo, a sviluppare la nostra creatività per affrontare il cambiamento. Non sempre sarà semplice, talvolta potrà essere doloroso, ma questo è forse l’unico modo che abbiamo per ricominciare, e poi per proseguire, ricordandoci ciò che in questo frangente abbiamo imparato.

Maria Concetta De Giacomo (Psicologa, Psicosomatologa – Urgenza Psicologica Monza)

Foto repertorio MBNews