Scuola Politica Alisei, la ricercatrice Meli: “Italia all’avanguardia nella lotta alle mafie, è un modello internazionale”

La docente del corso di “Strategie internazionali di contrasto alla criminalità organizzata” alla Statale di Milano, ospite del corso: “Il movimento antimafia italiano ha una lunga storia e reso il nostro Paese un riferimento all’estero”
L’Italia come modello e punto di riferimento nel contrasto internazionale alla criminalità organizzata. È questo il concetto che le ragazze e i ragazzi della Scuola di Formazione Politica Alisei hanno potuto portare “a casa” nella quinta lezione del corso, tenuta da Ilaria Meli, ricercatrice e docente del corso di “Strategie internazionali di contrasto alla criminalità organizzata” all’Università Statale di Milano. Quello italiano. ha spiegato Meli tirando le somme della sua lezione, è stato “un sentiero plurale, collettivo, lungo e creativo”. Certo. spesso trainato purtroppo dalla lunga di scia di sangue con cui le mafie hanno flagellato la storia del nostro Paese – molte leggi antimafia sono state approvate dopo eventi di sangue o stragi -, ma la sua evoluzione ha reso l’Italia un riferimento anche all’estero per la lotta ai gruppi criminali di altri Paesi.
A livello internazionale a lungo sono mancate anche le basi comuni. Solo nel 2000, ha spiegato Meli, “si è arrivati a una definizione di criminalità organizzata concordata tra Paesi, con la firma della Convenzione di Palermo” con cui i firmatari “si sono impegnati a inserire nei propri codici penali i reati tipici della criminalità organizzata – partecipazione ad associazione criminale, riciclaggio di denaro sporco, corruzione”. Anche in questo caso l’Italia per via della sua storia era già un passo avanti rispetto a tutti gli altri: già nel 1982 era stata approvata la legge che prevede l’associazione a delinquere di stampo mafioso, promossa dal deputato del Pci Pio La Torre, ucciso da Cosa Nostra proprio per il suo impegno. Una norma che è l’architrave del contrasto alla criminalità organizzata, perché punisce chi fa parte di un’organizzazione criminale per il solo fatto di appartenervi e non per i singoli reati commessi.
Ancora di più bisognerà aspettare per il riconoscimento a livello internazionale dell’importanza degli strumenti di prevenzione e della società civile, oltre che a quelli della repressione. Arriverà solo nel 2015 con la Dichiarazione di Doha dell’UNODC (l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine). “Per la prima volta”, ha spiegato la professoressa Meli, “un organismo istituzionale internazionale riconosce la necessità di superare un approccio soltanto repressivo”, attraverso la promozione della “cultura della legalità” nell’interesse pubblico. “Un passaggio fondamentale ma tardivo”, ha sottolineato Meli. E di nuovo, anche qui l’esperienza italiana è stata un modello da cui partire: l’esperienza delle reti associative, con il lavoro fondamentale di Libera, il riutilizzo sociale dei beni confiscati, reso realtà nella legislazione italiane grazie a un referendum popolare promosso proprio da Libera, la ricerca accademica con numerosi docenti italiani che insegnano in prestigiose università all’estero.

Il movimento antimafia italiano, partito dalle campagne del Sud con la lotta dei contadini già a fine Ottocento, proseguito nelle città dopo il boom economico e proseguito nella società civile, nelle scuole e nelle università, ha permesso all’Italia di sviluppare anticorpi per quel male profondo che sono le mafie. Un percorso, come si diceva all’inizio, lungo e collettivo, che deve continuare con sempre più convinzione e decisione. Magari con il contributo di giovani ragazze e ragazzi come i partecipanti alla Scuola di Formazione Politica di Alisei, che con le loro numerose domande e interventi nel corso della lezione hanno dimostrato di avere a cuore questo tema così fondamentale.