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Monza, Teatro Manzoni: Silvio Orlando commuove ne “La vita davanti a sé”

12 novembre 2023 | 20:56
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Monza, Teatro Manzoni: Silvio Orlando commuove ne “La vita davanti a sé”

Nell’opera, tratta dal romanzo “La Vie Devant soi” di Romain Gary, l’attore napoletano è Momò, un bambino arabo di dieci anni. Il racconto è un inno alla convivenza tra culture, religioni e stili di vita diversi.

Monza. Ridere e piangere sono spesso messi in contrapposizione. Ma queste due reazioni emotive sono, in realtà, due facce della stessa medaglia. E, in fondo, commuoversi è la manifestazione umana che, toccandoci nel profondo, più unisce il riso e il pianto. Come è accaduto agli spettatori accorsi al Teatro Manzoni di Monza che nei giorni 10, 11 e 12 novembre hanno assistito a “La vita davanti a sé”.

Sul palco, nell’opera teatrale tratta dal controverso e noto romanzo “La Vie Devant soi” di Romain Gary Emile Ajar, Silvio Orlando, protagonista e regista, ha vestito i panni di Momò, un bambino arabo di dieci anni che vive nel multietnico quartiere parigino di Belleville, dove è cresciuto nella pensione di Madame Rosa, un’anziana ex prostituta ebrea, che si guadagna da vivere prendendosi cura, al sesto piano di un palazzo fatiscente e senza ascensore, dei figli delle sue ex “colleghe”.

Nell’ora e mezza de “La vita davanti a sé”, opera vincitrice del prestigioso Premio Le Maschere del Teatro Italiano, Silvio Orlando ha dato vita, sfruttando la sua naturale mimica facciale e un grande senso dei tempi scenici, anche comici, ad una storia esemplare e a tratti fiabesca. Ma capace, attraverso gli occhi e le parole di un bambino, di infondere insegnamenti importanti al variegato mondo degli adulti. Su tutti il “bisogna voler bene”, che conclude la rappresentazione sul palco e continua a risuonare come un monito contro gli stereotipi e l’odio, etnico, razziale e religioso, troppo spesso alla base di divisioni insulse e laceranti.

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LA STORIA

“La vita davanti a sé”, che al Teatro Manzoni di Monza ha aperto la Sezione Grande Prosa della stagione 2023/2024, è ambientato nel 1970, cinque anni prima della pubblicazione del romanzo di Romain Gary, candidato al Premio Goncourt e adattato per il cinema nel 1977, quando ha vinto il Premio Oscar come miglior film straniero.

Il contesto della periferia parigina, degradata ma ricca di umanità, è lo scenario e la palestra di vita del piccolo Momò alias Silvio Orlando. Che sul palco racconta in prima persona alcuni dei momenti più significativi di un’infanzia segnata sin dall’inizio dall’assenza incolmabile della madre, anche lei prostituta come Madame Rosa, uccisa dal suo sfruttatore nonché padre del bambino.

IL MESSAGGIO

Così, convivendo con bambini più piccoli e di nazionalità diverse, ma accomunati dal bisogno di affetto e dalla necessità di trovare “corrispondenze di amorosi sensi”, Momò cerca la sua strada nelle vie del quartiere in cui cresce. Si esibisce sul marciapiede con un ombrello a cui ha modificato il manico e dato il nome di Artur per guadagnare pochi franchi. A sei anni ruba perfino un uovo nel tentativo estremo e vano di trovare la sua figura materna.

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Mentre Madame Rosa, dipinta nei suoi tratti pittoreschi e appesantita dai suoi 95 chili, dagli anni e dall’indimenticato trauma della deportazione nel lager di Auschwitz, invecchia e si ammala sempre di più, Momò fa esperienza, nella semplicità e drammaticità della sua età, della convivenza tra culture, religioni e stili di vita diversi.

Ecco allora che come nel romanzo anche nell’opera teatrale interpretata da Silvio Orlando, accompagnato sul palco del Teatro Manzoni dall’Orchestra Terra Madre, composta da Simone Campa alla chitarra battente e alle percussioni, Daniele Mutino alla fisarmonica, Diego Mascherpa al clarinetto e al sax, Kaw Sissoko alla kora e al djembe, il susseguirsi degli eventi è caratterizzato dall’apparire di grandi verità.

Non sapevo di essere arabo finché non hanno cominciato ad insultarmi a scuola” afferma quasi all’inizio Momò con la voce, leggera ed ironica, di Silvio Orlando. “La prima volta che un arabo manda un ebreo in Israele” pronuncerà più avanti nella trama l’attore napoletano quando Madame Rosa, pur di non vivere da vegetale in ospedale, preferirà morire nello scantinato, il suo “rifugio israeliano”, del palazzo in cui vive.

Silvio Orlando

IL FINALE

Frasi che, nonostante siano state concepite nei primi anni Settanta, anticipano di alcuni decenni tematiche come l’immigrazione, l’inclusione e la convivenza e, in un certo senso, ci raccontano qualcosa anche di questa nostra epoca segnata da tragedie come la guerra in corso tra Israele e Palestina.

Per guardare avanti con fiducia, non possono bastare la saggezza acquisita prematuramente da Momò, che ad un certo punto con l’improvvisa e breve comparsa del padre naturale, uscito dopo 11 anni dal manicomio criminale, scopre anche di avere 14 anni e non 10.

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Non può bastare l’aver capito che “gli incubi sono i sogni di quando si invecchia” o che “non c’è bisogno di motivi per aver paura”. L’unica strada tracciata da “La vita davanti a sè”, al termine dell’alternarsi di emozioni di una trama che ha la forza eterna di non proporre soluzioni ideologiche semplicistiche, è quella del “voler bene”. Proprio come fa Nadine, la giovane e sensibile donna, già madre di due bambini biondissimi, che accoglie nella sua casa Momò conosciuto per caso vicino ad un circo.

Il saluto al pubblico del Teatro Manzoni di Monza di Silvio Orlando, che con i musicisti dell’Orchestra Terra Madre suona il flauto traverso e propone una serie di brani dal ritmo etnico e folk, è un ulteriore modo per dire che in fondo siamo tutti cittadini dell’unico Pianeta su cui abitiamo. E, quindi, ciò che ci unisce è e deve essere di gran lunga superiore a quello che ci divide.