A Monza Filomena Lamberti, la prima donna sfregiata con l’acido dal marito: “Denunciate, siate libere”

La sua storia è un monito contro la violenza domestica, un richiamo alla necessità di combattere questa piaga sociale.
Il 28 maggio del 2012 rappresenta una data indelebile nella vita di Filomena Lamberti, una donna coraggiosa il cui destino è stato brutalmente alterato da un atto di violenza inaudita. La sua storia è un monito contro la violenza domestica, un richiamo alla necessità di combattere questa piaga sociale. Dopo 30 anni di matrimonio, Filomena prese la difficile decisione di lasciare suo marito, annunciando la fine di un capitolo della sua vita. Una scelta che avrebbe dovuto essere rispettata e accettata, ma che ha invece scatenato la furia di un uomo incapace di gestire la fine di una relazione.
Il 28 maggio del 2012, il gesto scioccante del marito ha cambiato irreparabilmente la vita di Filomena. Alle 4 del mattino, con le parole minacciose “Guarda che ti do“, le ha gettato addosso una bottiglia di acido, causandole gravi lesioni a testa, volto, mani e décolleté. L’orrore di quell’atto non ha conosciuto limiti.
Filomena Lamberti è diventata un simbolo di forza e resilienza. La sua storia continua a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla violenza domestica e la necessità di agire per proteggere le vittime. Ieri, ospite del convegno “Questo non è amore”, organizzato dalla Questura di Monza presso la Villa Reale, Filomena ha ripercorso quel calvario.
“Dopo aver vissuto 30 anni di violenza gli ho comunicato la mia volontà di volermi separare, mettendo un punto dopo per troppo tempo avevo posto una virgola. Non ero economicamente indipendente, avevo figli piccoli, avevo paura me li portassero via. Oggi, con il senno di poi, gli avrei evitati di vivere tutta quella violenza assistita. Io oggi non me lo perdono” così Filomena davanti ad una platea silenziosa.
“Sono trascorsi gli anni e il mio figlio più grande doveva sposarsi. Ho atteso le nozze per non rovinare il momento di festa e, dopo 15 giorni, comunicai a mio marito la mia decisione. Volevo trascorrere una vecchiaia serena. Lui come molti uomini non mi diede modo di capire cosa mi aspettava”.
Da quella comunicazione sono trascorse poche ore e, alle 4 del mattino, quando Filomena era a letto ha vissuto l’orrore sulla sua pelle. “Mi disse solo due parole: Guarda che ti do, e le rovesciò addosso la bottiglia con l’acido. “Era la sua punizione per me, quello che mi meritavo per aver scelto di essere libera”.
Lamberti ha subito 30 interventi, dieci solo per ricostruire le palpebre, un calvario fisico e psicologico, dentro e fuori dalla sala operatoria. “Nel 2017 ho detto basta, non potevo sopportare altro dolore”.
Oggi Filomena porta avanti la sua testimonianza ad altre donne affinché “non commettano i miei stessi errori. Errori di non aver mai denunciato, di aver sempre sperato nel cambiamento. In queste persone il cambiamento non avviene mai, anzi peggiorano sempre di più“.

MOSTRA FOTOGRAFICA
In Villa Reale è possibile visitare le mostre “Com’eri vestita” e “Tanto a me non capita…” allestite dalla Associazione Libere Sinergie. “What Were You Wearing’”, ‘Com’eri vestita?’ è la mostra che racconta storie di abusi, poste accanto agli abiti in esposizione che intendono rappresentare, in maniera fedele, l’abbigliamento che la vittima indossava al momento della violenza subita. Si tratta di un progetto che nasce nel 2013 da parte di Jen Brockman, direttrice del Centro per la prevenzione e formazione sessuale di Kansas, e di Mary A. Wyandt-Hiebert responsabile di tutte le iniziative di programmazione presso il Centro di educazione contro gli stupri dell’Università dell’Arkansas e diffuso in Italia grazie al lavoro dell’Associazione Libere Sinergie che ne propone un adattamento al contesto socio culturale del nostro Paese. L’idea alla base del lavoro è quella di sensibilizzare il pubblico sul tema della violenza sulle donne e smantellare il pregiudizio che la vittima avrebbe potuto evitare lo stupro se solo avesse indossato abiti meno provocanti, da qui il titolo emblematico ‘Com’eri vestita’.
I visitatori possono identificarsi nelle storie narrate e al tempo stesso vedere quanto siano comuni gli abiti che le vittime indossavano, la mostra intende suscitare reazioni e portare i visitatori a pensare: “ho questi indumenti appesi nel mio armadio!” oppure “ero vestita così questa settimana”.

