La realtà da dentro un centro antiviolenza. Greta, una storia di 10 anni di violenza senza botte

Siamo stati a Desio, all’associazione White Mathilda e abbiamo ascoltato la storia di questa donna
Desio. Quand’è che una donna arriva a trovare il coraggio di chiedere aiuto rivolgendosi ad un centro antiviolenza? Qual è la goccia che fa traboccare il vaso? Un occhio nero, forse. O magari un braccio rotto. E’ la prima associazione logica che viene da fare. Me è errata. La percentuale di donne picchiate che si rivolge ad un centro antiviolenza è davvero esigua, la punta dell’iceberg. La realtà sommersa è che sono tantissime, e continuano ad aumentare, le donne vittime di quella violenza invisibile ma altrettanto dolorosa: la violenza psicologica, economica, emotiva. Noi di MBNews abbiamo deciso di entrare in uno di questi centri antiviolenza e incontrare una di queste donne: siamo stati a Desio, al centro antiviolenza White Mathilda per parlare con Greta (nome di fantasia), una donna che per ben 10 anni ha subito violenza senza botte.
“SENTITI LIBERA”: IL CORAGGIO DI CAMMINARE DA SOLA DOPO 10 ANNI
L’intervista
La nostra chiaccherata con Greta è durata circa una quarantina di minuti. Poche le nostre domande. La sua storia, tra lacrime e sorrisi, è venuta fuori tutta d’un fiato dalla sua bocca. Eppure, a fine intervista, Greta ci ha guardati dicendo “non so mai cosa dire quando devo raccontare la mia vicenda”. Un leitmotiv che l’ha accompagnata fin dall’inizio del suo percorso di rinascita: la convinzione che la sua storia valesse di meno rispetto ad un’altra, che la violenza da lei subita non fosse abbastanza per un centro antiviolenza, la percezione che non avendo segni fisici le sue paure fossero solo frutto dell’immaginazione. Invece Greta era vittima a tutti gli effetti di un uomo, come lei stessa definisce, “granitico e senza empatia alcuna”.
“Mi sono sposata molto giovane, poco dopo la laurea. Subito dopo il matrimonio sono arrivati anche i figli. Io non lavoravo, stavo a casa a fare la mamma, mio marito invece lavorava spesso in trasferta – inizia la sua storia – questo è stato il terreno fertile per costruire disparità tra noi. Dipendevo da lui in tutto, soprattutto economicamente: avevo addirittura un budget prefissato per la spesa. Tanto che mi sentivo terribilmente in colpa se desideravo qualcosa per me”.
“Dato che lui era spesso fuori io passavo tantissimo tempo a casa da sola con i figli. All’inizio, quando erano piccoli è stata davvero dura – continua – ora capisco che isolarmi completamente dal resto del mondo era un altro suo subdolo modo per tenermi legata a lui. Nel periodo in cui siamo stati sposati io ho tagliato i ponti con tutti, amici e familiari. Soffrivo ma non avevo nessuno con cui parlarne. E non dovevo parlarne! Lui mi diceva sempre che dovevo essere la donna-ombra: esserci senza creare problemi, anzi, li dovevo risolvere. Gli dovevo coprire le spalle, cioè permettergli di andare a lavorare senza pensieri e con la consapevolezza che a casa fosse tutto a posto. Io mi sono annullata”.
“Per il mio 30esimo compleanno ricordo che una mia amica gli aveva chiesto un consiglio su cosa potesse regalarmi. Sa che cosa ha risposto lui? “A Greta non serve niente!”. Io non ho neanche mai ricevuto l’anello di fidanzamento: ora ci scherzo su con i miei figli, ma il fatto che lui non avesse mai un pensiero carino per me mi ha sempre fatto molto soffrire”.
LA PAROLA FINE AD UN MATRIMONIO DI 10 ANNI
Greta decide di fare un piccolo passo qualche anno più tardi, trovando un lavoro e cominciando a costruire la sua indipendenza: “lui era bravissimo a far insinuare il dubbio su ogni cosa nella mia testa – ci spiega – il lavoro me lo avevano dato solo perché ero carina, non perché ero brava. Se mi accettavano nel gruppo dei colleghi era solo per cortesia. E se parlavo con un uomo, era un tradimento. Se tornavo a casa dopo una giornata di lavoro e lamentavo stanchezza, lui subito mi diceva di licenziarmi perché era l’impiego a stressarmi. Invece io stavo male per l’ambiente familiare in cui vivevo. Solo che lui ci riusciva a farmi dubitare di me stessa, sempre, e sono arrivata a credergli”.
Poi è arrivato il Covid. E la struttura già traballante del loro matrimonio crolla definitivamente: “chiusi in casa, con lui che non poteva più allontanarsi per le trasferte. Sulle mie spalle incombeva tutto, la gestione della casa, la situazione in generale, la didattica a distanza. Il mio malessere in quel periodo non era più solo emotivo, ma cominciava ad essere anche fisico. E’ qui che prendo consapevolezza che nel mio matrimonio c’era qualcosa che non andava, così decido di chiedere il divorzio e inizia un’altra lunga battaglia. Lui ovviamente la prende male e non mi vuole concedere la separazione, un’altra forma di violenza: non accettare che l’altra persona si allontani. Io perdo 17 chili per il terrore che avevo di lui, di quello che poteva farmi, delle conseguenze. Ci sono state delle volte che lui si piazzava davanti alla porta per impedirmi di uscire da una stanza – racconta tra le lacrime – ancora oggi se mi trovo in un ambiente e qualcuno blocca il passaggio io tremo per la paura. La violenza ora era diventata anche verbale”
Ma la separazione, per Greta, è la goccia che fa traboccare il vaso. E’ solo con la fine del matrimonio, infatti, che Greta trova anche la forza di rivolgersi ad un centro antiviolenza. E questa forza, quasi come un paradosso, è un uomo che gliela dà.
“Un mio amico sentendomi raccontare alcuni episodi mi fa capire che le mie non erano solo paure infondate. E’ lui che mi prende l’appuntamento con il centro antiviolenza White Mathilda: ricordo ancora il giorno in cui sono venuta qui, era circa un’annetto fa, c’era il festival e Chiara Ferragni aveva fatto il suo ingresso con l’abito manifesto. Io scrivo al mio amico dicendogli “sono qui, ma non so cosa dire, cosa racconto?”. E lui mi risponde: “pensati libera”. Quando sono entrata tutti i miei timori sono spariti: sono stata accolta, ascoltata e creduta – continua – ho capito che anche quelle che avevo subìto io erano violenze e che avevano tutto il diritto di essere chiamate violenza, anche se sul mio corpo non c’erano segni visibili, almeno fuori. Ho capito che lui era una cattiva persona, non io. Ho capito che potevo camminare da sola, che mi bastavo. Per un sacco di tempo mi ero trincerata dietro il timore di non farcela, mi dicevo: ma dove vado da sola? Come faccio?”
L’INCONTRO CON SÉ STESSA DOPO IL PERCORSO CON IL CENTRO ANTIVIOLENZA WHITE MATHILDA
“La prima sensazione che ho provato nel momento in cui mi sono riuscita a liberare di quegli anni terribili è stata di smarrimento: io ero abituata a conoscermi come donna in casa con i figli o come donna al lavoro. Quando mi sono trovata da sola, non sapevo chi ero. La domenica pomeriggio per esempio, all’inizio, è stato uno dei momenti più tosti per me, in cui ho toccato il fondo: l’ufficio chiuso, i figli dal padre. Non avevo idea di cosa fare, ero sola con me stessa e non mi riconoscevo. Solo da poco ho imparato a portarmi in giro, a farmi delle sorprese, a coccolarmi”
Greta però ha fatto una scelta: non denunciare l’uomo che per dieci hanno le ha fatto violenza psicologica. Perché? Le chiediamo: “voglio proteggere i miei figli. Capisco che per questo vengo giudicata ma ci ho fatto l’abitudine al giudizio. So a cosa andrebbero incontro se sporgessi denuncia, sarebbe un inferno. E’ il senso di protezione verso di loro che mi blocca – poi dopo una lunga pausa aggiunge – o forse non sono ancora abbastanza forte”.
Ha paura? “Sì, ho ancora paura. Tante volte ho avuto paura fosse arrivata la mia fine. Io credo che ognuno faccia un pezzetto alla volta per quello che riesce. Io sono stata brava a fare quello che ho fatto fino adesso”.
LA REALTA’ DA DENTRO IL CENTRO ANTIVIOLENZA WHITE MATHILDA
La ragazza più piccola che si è rivolta al centro White Mathilda ha 14 anni, la più grande 83: ogni giorno sono tantissime le donne che si rivolgono all’associazione brianzola. Perché quindi raccontarvi la storia di Greta? Perché la sua testimonianza tiene accessi i riflettori sul tema della violenza sulle donne anche dopo il 25 di novembre, quando l’attenzione mediatica sull’argomento inizia ad affievolirsi. Perché la sua storia potrebbe essere simile a quella di qualcun’altra diventando, non solo spunto di riflessione, ma magari un faro guida per trovare la forza di chiedere aiuto. Soprattutto per ricordare che il centro antiviolenza White Matildha c’è, il cui slogan è “azione e rivolta a favore dei più deboli per un cammino di riscatto e dignità sociale”.

C’è stato un “effetto” Giulia Checchettin?, chiediamo ad una delle 12 psicologhe del centro antiviolenza.
“Questo fatto di cronaca ha catturato l’attenzione soprattutto dei più giovani ma non abbiamo rilevato aumenti significanti nelle richieste di aiuto. O meglio – ci spiega – è già da un po’ che sono aumentate le richieste perché è aumentata la consapevolezza delle donne nel comprendere quello che non funziona e non dovrebbe essere tollerato all’interno di un rapporto di coppia”.
Ci fa un esempio? “Qualche settimana fa è venuta da noi una 20enne: il suo fidanzato era molto ossessivo. Le chiedeva di scriverle quando saliva sul treno, quando scendeva, quando entrava a scuola, con chi si incontrava e tutti i giorni si faceva trovare sotto casa sua. Lei si sentiva soffocata e nel momento in cui manca il consenso, quindi quando l’atteggiamento di uno va a ledere la libertà dell’altro, si può iniziare a parlare di violenza”.
Il 25 novembre è una data importante ma evidentemente non è sufficiente, cosa si può fare ancora? “E’ importante anche che amici e familiari siano vicini alla vittima, se vedono che qualcosa non va hanno il dovere di aiutare. Per esempio una donna, dopo anni di matrimonio con alla base violenza psicologica ed economica (il marito sperperava tutti i soldi e lei era praticamente costretta a lavorare per pagare i suoi vizi) si è rivolta a noi grazie alle figlie che le hanno fatto aprire gli occhi!. Le iniziative del 25 novembre vanno benissimo e sono utilissime perché più se ne parla e meglio è, ma quello che deve veramente cambiare è la narrazione: un uomo che non da libertà economica alla donna sta facendo violenza, un ragazzo che ti chiama venti volte in un giorno sta facendo violenza, non è romantico se la fidanza non gradisce. Potrei andare avanti con un elenco lunghissimo di atteggiamenti che per retaggio culturale ci facciamo andare bene e invece sono sbagliati. Non bisogna più minimizzare certi segnali, ma anzi attenzionare”.
E conclude: “il vero cambiamento parte da ognuno di ogni, dalla quotidianità dei gesti. Bisogna dare importanza a chiedere il permesso, il consenso, anche e soprattutto nei più piccoli per insegnare loro che possono accettare una cosa o meno. Genitori, insegnanti, educatori. Qualcosa, ma non è assolutamente sufficiente, si sta facendo dalle scuole medie in poi. Io credo che i giovani abbiano davvero tanto di cui parlare ma spesso non viene dato loro abbastanza spazio. Quello che voglio sottolineare, per chiudere, è questo: se nel vostro rapporto sentite che non c’è reciprocità, allora forse è bene che attiviate un campanellino d’allarme”.