Il focus

Monza, Scuola di formazione politica Alisei: “Ci vuole una politica economica europea”

Il percorso, dedicato a ragazze e ragazzi tra i 16 e i 26 anni e promosso dalla Cgil Monza e Brianza, si è soffermato sull'attuale governance e sulle scelte da fare per il futuro prossimo dell'Unione europea.


Monza. Fatta l’Europa, bisogna fare gli europei”. Si potrebbe parafrasare la famosa frase di Massimo D’Azeglio dopo l’Unità del 1861 per raccontare del punto in cui attualmente si trova l’Europa. Che, sebbene esista ormai da tempo come istituzione politica e monetaria, non è ancora percepita nella sua importanza sovranazionale e non ha una propria politica economica fatta di scelte industriali e fiscali autonome e cogenti a livello generale.

Anche per questo, soprattutto in vista delle ormai prossime Elezioni europee dell’8 e del 9 giugno, il dibattito su come cambiare l’Ue e riformarne la governance è molto acceso. Il tema, ancora lontano dal vedere una conclusione vicina, è stato al centro della lezione “Whatever it takes-le politiche economiche dell’Ue” inserita nel programma della decima edizione della Scuola di formazione politica Alisei.

“L’Unione europea, tra diffidenze e limiti che persistono, non è un’entità unitaria e riconosciuta come attore internazionale – afferma Cristian Perniciano, Responsabile Ufficio Economia della Cgil – non ha, dunque, le caratteristiche per fare una politica economica comune, ma al massimo mette in campo azioni coordinate, come il Next Generation Ue, che poi vengono declinate differentemente nei singoli Paesi”.

IL PASSATO

Una delle azioni coordinate, che nella storia dell’Unione europea ha ottenuto effetti positivi, è il “quantitative easing” (allentamento quantitativo, Ndr), il programma da ben 1.100 miliardi di euro voluto nel 2015 da Mario Draghi, allora governatore della Banca centrale europea, per sostenere il mercato dei titoli di Stato europei e porre fine alla crisi del debito europeo.

A precedere il “quantitative easing” di quasi due anni e mezzo fu il “whatever it takes” (“tutto ciò che è necessario”, Ndr), che sempre Draghi pronunciò nell’estate del 2012 a Londra con l’intento di annunciare che la Bce avrebbe fatto di tutto per salvare l’euro dalla speculazione.

Cristian Perniciano

“Quelle parole di Draghi, a cui aggiunse “vi assicuro che basterà”, hanno salvato l’euro in giorni di tempesta finanziaria in cui lo spread dell’Italia era altissimo e c’era la preoccupazione che il nostro Paese dovesse rinunciare alla moneta unica dando linfa alla crisi definitiva del debito sovrano europeo” spiega Nicola Saldutti, Caporedattore economia del Corriere della Sera, nel corso del suo intervento alla Scuola di formazione politica Alisei.

LA SITUAZIONE

Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti, ma alcune problematiche di base non sono cambiate. “L’euro è una scelta politica, non economica, in un’Europa a geometria variabile – afferma Saldutti – non a caso è l’unica istituzione a cui, quando un Paese entra nell’Unione europea, può decidere se aderire rinunciando alla propria sovranità monetaria oppure no”.

Negli ultimi anni l’Unione europea ha subito la Brexit, cioè l’uscita del Regno Unito, frutto di un referendum nel 2016 ed effettiva dal 31 gennaio 2020, ma anche visto il protagonismo della Bce, un’istituzione non eletta, che con la sua sede a Francoforte è testimone di un’Europa la cui locomotiva è sempre la Germania.

“La Bce è nata con il compito di perseguire la stabilità monetaria e governare l’inflazione entro il 2%, non con quello anche della crescita come la Federal Reserve, la Banca centrale americana – specifica il Caporedattore economia del Corriere della Sera – ecco perché, dopo il Covid, dal 2022 in poi, la scelta è stata quella di alzare i tassi di interesse dallo 0, dove erano rimasti negli 8 anni precedenti, al 4,5%, con un forte impatto sui mutui da pagare e gli investimenti delle imprese”.

LE SCELTE

Dopo l’allentamento delle stringenti regole del Patto di stabilità e crescita, che ha caratterizzato il recente periodo della pandemia e consentito ai Paesi membri di spendere aumentando il debito, le intenzioni dell’Ue sembrano essere quelle di attuare una decisa virata all’indietro.

“Si sta tornando alla logica del rapporto tra deficit e Pil al 3%, una soglia che fu stabilita sostanzialmente a caso e senza alcuna base scientifica e di un debito pubblico al di sotto del 60% del Pil” spiega il Responsabile Ufficio Economia della Cgil alle ragazze e ai ragazzi iscritti alla decima edizione della Scuola di formazione politica Alisei intitolata “CREW. Ritorno a Ventotene”.

LE PROSPETTIVE

“Si sta ragionando da tempo di come dotare l’Ue di una propria entrata fiscale e di eliminare dal calcolo del debito dei singoli Paesi alcune spese specifiche – conclude – per ora a livello europeo si è scelto di scorporare le spese per la difesa e l’Italia, che storicamente ha sempre sbagliato a puntare sulla ricerca dei costi bassi piuttosto che sugli investimenti, ha ottenuto non vengano calcolati per i prossimi tre anni gli incrementi degli interessi sul debito pubblico”.

Di fronte all’enorme portata delle decisioni da prendere nel prossimo futuro per dare la giusta direzione a sfide come la transizione ecologica, la sostenibilità ambientale e l’innovazione tecnologica, le Elezioni europee dell’8 e 9 giugno potrebbero segnare lo spartiacque tra un prima e un dopo, tra la possibilità di cambiare ancora e quella di andare dritti su una strada che potrebbe anche rivelarsi sbagliata.

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