Monza, la prima de “Il mondo nuovo” conquista il pubblico del Teatro Binario 7

Lo spettacolo, tratto dal celebre romanzo distopico di Aldous Huxley, con la regia di Corrado Accordino, andrà in scena da giovedì 27 febbraio a domenica 2 marzo, presso il Teatro Binario 7.
Monza. “Io sono felice“. È questa semplice frase, ripetuta, ad accogliere lo spettatore, conducendolo nel “mondo nuovo”, la realtà distopica (ma non troppo) descritta dall’omonimo romanzo (titolo originale Brave New World ndr) del 1932 di Aldous Huxley. Tanti applausi per il debutto, venerdì 27 febbraio, dello spettacolo tratto dal celebre romanzo, nuova produzione della Compagnia Teatro Binario 7 di Monza, con la drammaturgia e la regia di Corrado Accordino.
La manipolazione sociale, il condizionamento dei desideri, la felicità imposta dal consumismo, la perdita dell’individualità a favore di un ordine collettivo rigido e predefinito. Sono questi alcuni dei temi forti che emergono nell’opera che tanto più, oggi, suona tragicamente vera e attuale. Le parole “Comunità, identità e stabilità” guidano le azioni di un mondo basato ormai sull’eugenetica, dove gli individui sono divisi in classi sulla base delle caratteristiche fisiche e intellettive, predeterminate in laboratorio. E le emozioni negative, annebbiate dal “Soma”, un euforizzante sintetico, sono sostituite dalle sensazioni positive.

“Il mondo nuovo”: in scena la modernità prossima?
“Siamo tutti succubi di condizionamenti subliminali e psicologici che ci fanno desiderare cose su cose, che ci impongono di classificare il mondo in buoni e cattivi, in classi primarie, secondarie ed emarginati, che ci rendono schiavi di zuccheri e farmaci fin dall’infanzia, seguaci del dio cibo e del sorriso felice sui social. Tutto per essere come gli altri, visti dagli altri, meglio degli altri – il commento del regista Corrado Accordino. “Ed è un’azione artistica coraggiosa e folle perché vorrei, fino in fondo, che questo spettacolo fosse una visione scenica inclusiva, suggestiva e ipnotica. Lo spettatore, nel momento stesso in cui metterà piede in sala entrerà a far parte di questo Mondo Nuovo, dove luci, corpi e condizionamenti lo trascineranno in una realtà altra, una dimensione sensoriale inedita, una sollecitazione emozionale e sensuale”.

“Gli attori e le attrici trascineranno il pubblico in un’alterazione psichedelica, una realtà dove la monogamia non esiste, la privacy non esiste, la malattia non esiste, la famiglia è proibita, dove ognuno appartiene a tutti e tutti sono creati per amare ciò che fanno. Fino a un certo punto però. L’allucinazione scenica vivrà dei limiti, si creerà un conflitto narrativo quando poi un selvaggio (così chiamato nel romanzo) venuto dalle riserve ai confini del mondo, metterà in discussione alcune certezze di questa realtà granitica, provocherà scossoni e incertezze, tenterà una ribellione, ribadirà il senso di appartenenza ad un nucleo famigliare intimo, difenderà la parola anima, il concetto di identità individuale, si farà bandiera di un mondo antico e ribelle, ingenuo forse ma figlio di Shakespeare. E allora, questo Mondo Nuovo, profetizzato e gestito dai piani alti e così apparentemente sereno, sarà davvero la nostra unica opzione?“.
Lo spettacolo: tra il sogno e l’incubo del presente
A restituire sul palco i tratti di un mondo distopico la scenografia di Maria Chiara Vitali, tra orologi che oscillano sugli attori, specchi e altalene fiorite, in uno scenario che sembra offrire felicità illusoria e appariscente senza perdere la capacità di interrogare l’interiorità degli attori come degli spettatori. Ed è in questo scenario, tra l’incubo e il sogno, che si muovono gli attori principali di quello che, a tutti gli effetti, è un dramma mascherato e addolcito fino all’oblio. Un dramma dove perfino il dolore e la tragedia vengono spettacolarizzati come un qualcosa di superato e strano.

Bernardo Marx (uno degli alfa, al livello più alto della società), interpretato da Daniele Ornatelli, Lenina Crowne (una beta), Silvia Rubino e Jhon, Alberto Viscardi che insieme alla madre Linda, Alessia Vicardi, rappresenta i cosiddetti selvaggi, uomini che vivono ancora in modo “naturale”, vivendo la tristezza e il dolore, padroni della propria individualità ma isolati e studiati all’interno di riserve. E sarà proprio l’arrivo di Jhon, che ancora conserva e difende la sua umanità, fatta di fragilità, insicurezze ma anche conservatrice di una capacità ormai perduta, quella di amare davvero, a rimescolare le carte in tavola. E a portare il dubbio tra le fila di coloro che hanno abbandonato “il pensare” in favore del “sentire”, tanto che, a tratti, non è più chiaro chi sia il vero selvaggio.
È forse Jhon, non nato in una provetta, capace di provare ancora ogni emozione e restio ad abbracciare una modernità uniformata e annichilente, oppure, ad essere selvaggi, sono gli altri, sì immersi nella scienza e nella tecnica ma aggrappati ormai solo alle senzazioni più basilari e spaventati da ogni forma di pensiero critico divergente, da ogni emozione profonda e umana? Un interrogativo, questo, che accompagna lo spettatore fino alla fine, tra la tentazione di abbandonarsi ai piaceri della modernità e il desiderio umano di resistere e respingere ciò che di umano ha ben poco.